“È Il numero 17, mi perseguitava nell’anno in cui ho raggiunto i quarti. Lo vedevo davvero dappertutto. Avevo l’armadietto numero 17, nel 2003 era l’edizione numero 117 dei Championships. Magari andavo a vedere qualche partita e mi capitava un seggiolino con quel numero. Sembrava quasi una cosa fatta di proposito! Da noi si dice che sia un numero sfortunato, a me portò benissimo” . Questo il primo ricordo legato a Wimbledon che balza nella mente di Silvia Farina, ex tennista italiana numero 11 al mondo e attuale telecronista, che ha calcato i sacri campi dell’All England Club per ben quattordici stagioni sul circuito maggiore con il miglior risultato raggiunto, appunto, nel 2003 con i quarti di finale.
Sei avanti di un set su Kim Clijsters, poi succede qualcosa di strano.
Sì, la mia avversaria è stata punta da un’ape. Io non me ne ero nemmeno accorta, l’ho scoperto quando mi hanno detto di fermarmi. Ero concentratissima fino a quel momento, poi quell’interruzione mi ha portato a pensare: sto vincendo, sono a un set dalla semifinale a Wimbledon. E di lì mi si è rotto qualche meccanismo, sono uscita dalla trance agonistica in cui ero. Poi magari la pausa è servita anche a lei per riordinare le idee… (la Clijsters vinse 5-7 6-1 6-0, ndr).
Ti fa effetto rivederla in campo?
Il primo ritorno non mi aveva stupito, era comunque passato poco tempo dal ritiro. Questa volta devo dire di sì, anche perché non mi ha fatto una grande impressione fisicamente. Magari ne approfitterà in questo periodo. È sempre stata una grande campionessa, con sfumature che altre giocatrici non hanno nel loro repertorio.
A proposito di interruzioni, come vivevi quelle per pioggia?
Ricordo che un anno non si giocò per quattro giorni e da lì iniziarono a pensare alla costruzione del tetto. Gli organizzatori sanno dirti se si tratta di una pioggia lieve o no. Nel primo caso ascolti un po’ di musica, fai stretching e mangi qualcosina. Altrimenti io andavo sotto la doccia e restavo tranquilla nella player lounge. Cercavo di distrarmi il meno possibile. Guardare il meteo fa parte del torneo, anche perché devi preparare la borsa con i cambi: in alcune occasioni è toccato interrompere anche quattro volte e mentalmente non è facile.
Per due volte hai raggiunto la seconda settimana, com’è il Middle Sunday di Wimbledon?
Strano. Perché è tutto chiuso e senza pubblico ma all’interno c’è sempre movimento perché proseguono gli allenamenti. A qualche giocatore può sembrare noioso e a me non piaceva tanto, lo prendevo più che altro come un giorno di riposo.
È vero che è difficile preparare Wimbledon giocando altri tornei?
In passato i campi si avvicinavano di più a quelli di Wimbledon. L’erba era più alta e favoriva un gioco più aggressivo, servizi slice. Il torneo che si avvicinava di più era quello di Eastbourne ma Wimbledon adesso è diventato un tappeto, si può scambiare di più da fondo. Anno dopo anno mi accorgevo di qualche piccola modifica alla velocità, è stato un passaggio graduale.
Qual è il ricordo del Centre Court?
Più che giocare in un campo sembra di farlo in un teatro. C’è un silenzio surreale impossibile da replicare in qualsiasi altro torneo. Durante il punto fa quasi impressione e poi, una volta finito, senti esplodere questo boato incredibile. Il pubblico ha davvero un rispetto fantastico.