23 July 2015

New Balls, Please

Gianluca Mager è uno dei nostri migliori talenti che sembrava perso tra problemi adolescenziali e poca voglia di soffrire. Poi gli interventi di Diego Nargiso e Mauro Iguera hanno ridato (tanta) speranza.

Se non ci fosse stato lui avrei smesso”. Il lui in questione è Diego Nargiso, mentre a parlare è Gianluca Mager, 20 anni da Sanremo. Insieme formano una delle coppie più interessanti del tennis azzurro. Si stanno affacciando verso i primi tornei di un certo livello, con una storia particolare alle spalle, che rende il talento sanremese un personaggio più affascinante degli altri. In breve, dopo un buon percorso giovanile, nella vita di Mager il tennis era passato in secondo piano. L’hanno pure pizzicato dall’antidoping per una canna in compagnia, e la voglia è scemata. A ricostruire le tappe è papà Sergio, che lo accompagnava ai tempi dei tornei giovanili, negli anni in cui il piccolo Gianluca era fra i migliori d’Europa, e la sua preoccupazione era solo quella di non essere sviluppato come i coetanei. “Fisicamente era un passo indietro agli altri – racconta il padre – e questo gli creava remore psicologiche: ‘Papà, io sono ancora un bambino’, mi diceva”. Ma i veri problemi sono arrivati dopo, nel periodo dell’adolescenza, quando dopo tre mesi d’allenamento a Monaco di Baviera con Claudio Pistolesi, decise di dire basta. “C’era tanto dispiacere, ma non ho voluto ostacolarlo. A quell’età non mi sembrava giusto imporgli di continuare. Mi diceva di non avere una particolare passione per il tennis, di volere una vita normale, e io gliel’ho lasciata fare”.

Tre anni dopo, Gianluca non si vergogna a raccontare il suo passato, perché è riuscito a metterselo alle spalle. “Ero un ragazzino e preferivo uscire piuttosto che impegnarmi, giocavo degli Open per raccogliere qualche soldo da usare per divertirmi. Magari mi allenavo un’oretta al giorno, senza fare atletica, saltavo gli allenamenti dicendo che non mi era suonata la sveglia, quando invece ero tornato alle 6 dalla discoteca”. Una bella fetta di merito è di Mauro Iguera, fino allo scorso aprile presidente del Park Tennis Club di Genova, il primo a puntare su di lui. Nel 2012 lo chiamò e lo invitò a Genova nei tre mesi del campionato di Serie A1, per allenarsi insieme agli altri giocatori. Oggi lo racconta con fierezza. “Mager? Voglio talmente bene a ‘sto ragazzo – dice Iguera – che se riusciamo ad aiutarlo sono più che felice. Gianluca era tesserato al Park da parecchi anni e quando sono diventato presidente ho avvertito che aveva delle qualità sopra la media. Siccome si stava perdendo, abbiamo deciso di provare a valorizzarlo. L’obiettivo era dargli un futuro, in un periodo in cui non studiava, non stava diventando un tennista professionista e nemmeno un maestro di tennis”.

Mi ricordo – prosegue Iguera – quando in una trasferta, al rientro da una passeggiata con mia moglie, mi capitò di vederlo rientrare in hotel. Diceva di essere uscito per una telefonata, quando invece era palesemente andato a fumarsi una sigaretta. L’ultima cosa che avrebbe dovuto fare alla vigilia di un match. Solitamente sono una persona molto rigida, ma con lui anche negli incidenti di percorso che ci sono stati ho sempre cercato di vederlo come un figlio, di dargli la vicinanza di cui aveva bisogno. L’unico match giocato quell’anno l’ha perso 6-1 6-1. Si è reso conto della distanza coi pro e ha capito che doveva fare un salto di qualità”. Gianluca è rimasto ad allenarsi a Genova a spese del club fino alla fine del campionato, poi, nel momento di decidere come muoversi, il caso ha voluto che la sua strada si incrociasse con quella di Nargiso.

Diego quel primo incontro se lo ricorda bene. Stava accompagnando una sua allieva ad un Open al Tennis Club Alassio, e rimase folgorato da Gianluca. “Era sul Campo 1 – racconta il coach napoletano – e si vedeva a occhio nudo che aveva qualcosa in più di tutti gli altri. Chiesi chi fosse, mi dissero che si chiamava Gianluca Mager ma di lasciarlo stare, perché era un pazzo furioso, ci avevano provato in tanti ma non era allenabile”. Lui invece ha capito subito che si poteva fare, ha sentito aria di sfida e ha scelto di provarci. “Sono stato il primo a essere giudicato a 13-14 anni. Dicevano non avessi la testa per diventare un giocatore, invece ce l’ho fatta. Io credo ci siano solo cattivi insegnanti, non cattivi allievi”. Così ha contattato Gianluca tramite un amico comune, l’ha incontrato e ha iniziato un percorso di cinque anni. È solo a metà, ma può già sorridere: ha avuto ragione lui, ridando una speranza ad un ragazzo che pensava a tutto tranne che alla vita da tennista. “Gli ho fatto subito presente che se l’avessi beccato a fare qualche cazzata l’avrei cacciato. Non ce n’è stato bisogno perché è stato bravissimo, da quel punto di vista non ha mai sgarrato”. La svolta è arrivata fin dall’inizio. L’orario che una volta significava rientro dalla discoteca è diventato quello della sveglia. Prima l’autobus per Ventimiglia, poi il treno per Montecarlo, per raggiungere Diego e spostarsi a Beausoleil, dove al tempo si allenavano. Così all’andata, così al ritorno. In quei viaggi in solitaria, Gianluca ha capito che il tennis era la strada giusta. “È stato un passo importante, credo di essere maturato proprio lì”.

Quando è arrivato Diego – spiega il padre – di comune accordo con lui io mi sono fatto da parte. Gli ho lasciato carta bianca e sono soddisfatto di come è andata. Gianluca è cambiato molto come persona, è cresciuto. Se prima poteva allenarsi un po’ di meno lo faceva, oggi è il contrario. Si allena sempre un po’ di più. Sta prendendo coscienza delle sue possibilità”. Ma la strada per arrivare qui è stata lunga e tortuosa. Mager doveva abituarsi a quelle giornate tutte uguali, scandite dalle sessioni d’allenamento e non da quello che gli passava per la testa. In soldoni, doveva abituarsi a fare il professionista, aspetto che gli crea ancora qualche problema. “Ci sono ancora tante cose che non faccio con mentalità da pro, come magari il riscaldamento prima di allenamenti e partite. Quando c’è il preparatore lo faccio in un modo, quando sono da solo lo faccio meno bene. Ma piano piano conto di arrivarci. Da qualche settimana ho iniziato anche ad alimentarmi meglio, a idratarmi in modo giusto, tante piccole cose che messe insieme diventano importanti”. Ecco svelato cosa intende Nargiso quando rivela di allenare un ragazzo dal grande talento, ma ancora acerbo per esplodere. “Gianluca si allena bene il 30/40% della giornata, nella parte rimanente non riesce a tenere lo stesso rendimento. È un aspetto su cui deve crescere”. Tuttavia, per un ragazzo come lui è quasi normale. A dicembre compirà 21 anni, ma è come se ne avesse 16. “È come se dai 14 ai 18 anni non fosse cresciuto, e quella è l’età in cui un ragazzo si forma. Ha solo bisogno di tempo, prima o poi diventerà un giocatore”. Ora sta prendendo consapevolezza dei propri mezzi, ma all’inizio faceva fatica a crederci. Abituato agli Open di provincia, il mondo dei tornei professionistici gli sembrava troppo grande. Andare a giocare le qualificazioni di un Futures era come andare in un torneo del Grand Slam. Era pieno di insicurezze, non aveva fiducia in se stesso. Dopo la prima trasferta in Marocco era spaventato: “Io non c’entro niente qui, questi sono dei marziani, io non ho questo livello”, disse al coach. Ma già dopo qualche settimana si accorse di avere profondamente torto.

Così è partita una scalata che ha offerto all’Italia un giovane su cui puntare, un diamante grezzo che si sta lucidando torneo dopo torneo, mostrando un potenziale sempre più vasto. Oggi, pur con tutte le difficoltà elencate da coach Nargiso, gli mancano una trentina di punti per raggiungere i primi 300 del mondo, e pare aver compiuto il primo passo importante della carriera di un giocatore: abbandonare i Futures per dedicarsi sempre più spesso ai Challenger. “Diciamo che le cose sono andate oltre le nostre previsioni. Il primo anno volevamo prendere un punto e ne ho presi 13, nel 2014 l’obiettivo era una trentina e ne ho fatti oltre 80, non ci aspettavamo una crescita così repentina” dice Mager. Qualcosa di incredibile se si pensa che 24 mesi fa non aveva punti, e giocava ancora gli Open a cavallo fra Italia e Francia. “Sotto certi aspetti me l’aspettavo – racconta ancora papà Sergio – perché conoscevo le qualità di mio figlio. Però bisogna rimanere coi piedi per terra, il tennis è uno sport micidiale, ci sono tanti fattori. Bisogna continuare step by step”. Ma ora che la possibilità di diventare giocatore si inizia a intravedere senza bisogno del binocolo, grazie a un tennis che sostanzialmente non ha punti deboli, la fame è tantissima. Magari non arriverà fra i primi 20 del mondo come ha azzardato uno spettatore del Foro Italico dopo la vittoria su Kavcic nelle qualificazioni degli Internazionali, ma il bagaglio è di prim’ordine. Gianluca sa fare tutto, semplicemente non sa quando farlo e gioca troppo a fasi alterne. Ma imparerà. “Giocare un Masters 1000 dopo così poco tempo che faccio le cose sul serio è stato incredibile, e il torneo mi ha aiutato a capire che posso giocare anche a quei livelli. Come tennis non c’è un abisso fra me e un top 100. Ma servono altre mille cose che migliorerò, dal fisico alla tattica. E poi io ho bisogno di tanta fiducia”. Fortunatamente Diego gliene dà molta, ormai è diventato come un secondo padre, e non potrebbe essere altrimenti visto quanto ha investito su di lui. “Con Gianluca e Andrea Basso (l’altro suo allievo, ndr) ho stipulato un contratto di cinque anni, in cui a loro pago tutto di tasca mia. Devono solo pensare a giocare a tennis; a spostamenti, allenamenti, spese e quant’altro ci penso io”.

Ora la base si è trasferita da Beausoleil al Tennis Club Sanremo e il percorso ha da poco superato la metà. Il punto ideale per tirare delle somme. “Spero che entro la fine dell’anno Gianluca sia in una posizione fra la 250 e la 300. Ce la può fare. Ma non è tanto un obiettivo di classifica, quanto di livello. Vogliamo fare esperienza per avvicinarci sempre di più al livello ATP. È quello che conta: elevare il gioco e il rendimento, per farsi trovare pronti quando capita l’occasione”. Il tutto con un alleato in più: la consapevolezza di non dover dimostrare niente a nessuno. “Io non devo vincere quella partita, non devo fare questo o quello, non ho pressioni. Diego non me ne ha mai messe e i miei genitori nemmeno”. Entra in campo sempre tranquillo e lo si percepisce anche da fuori. Ma delle ambizioni le deve pur avere anche lui. “Certo! Sogno di giocare sul Centrale di Wimbledon, o almeno di un torneo del Grand Slam, di entrare fra i top 100 e che il Milan vinca la Champions League. O che almeno torni a essere una squadra decente, perché qui siamo messi male”.

Suda quando gli chiedi dove si vede fra vent’anni: “Vent’anni? Minchia”. Ok, facciamo dieci: “Spero di aver giocato tante prove del Grand Slam, la Coppa Davis, di aver avuto una buona carriera. Anzi, una grande carriera”. A quel punto, quello che nel primo incontro di qualche anno fa pareva un sogno, diventerà la seconda vittoria di entrambi. Sì, la seconda, perché la prima è già arrivata quel pomeriggio ad Alassio, quando il cuore di Nargiso ha riportato sulla retta via un ragazzo che si stava perdendo. “È il mio più grande orgoglio – chiude Diego – perché la vita del giocatore intorno ai 35 anni finisce, ma quella dell’uomo comincia proprio lì. E io spero di essere riuscito a formare un uomo, non solo un tennista”.

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