Marco Caldara
24 September 2017

Chi li ha visti?

INCHIESTA - CHI LI HA VISTI? Nell’Era Open sono stati 38 i giocatori italiani capaci di entrare nella top 100 ATP, ma fra strade diverse, circoli privati ed esperienze all'estero, oggi solo tre di loro rivestono un incarico per conto della Fit. Davvero i nostri migliori ex giocatori non potrebbero essere una risorsa importante per la crescita dei giovani?
All’inizio sembrava una moda, ora è diventata una legge. I casi continuano a moltiplicarsi e risultati sono (quasi sempre) lì a dimostrare la bontà della scelta: nel tennis di oggi, la soluzione migliore per un tennista è quella di affiancare al classico coach, l’esperienza di un ex giocatore di spessore, in grado di trasmettere quei messaggi che conosce solo chi ha vissuto determinate esperienze. Perfino Roger Federer, oltre a coach Severin Luthi, si è affidato prima a Stefan Edberg e adesso a Ivan Ljubicic, mentre Rafael Nadal è cresciuto con lo zio Toni e talvolta avvalendosi del supporto di Francisco Roig, ma oggi ha avvertito l’esigenza di avere al fianco un campione (e suo idolo d’infanzia) come Carlos Moya. E così via, a conferma che circondarsi di persone d’esperienza sia una mossa vincente. Se lo è per i campionissimi, figurarsi per tutti gli altri, soprattutto i giovani in cerca del sentiero per scalare il ranking. Dopotutto, questa scelta si può riprodurre a tutti i livelli: un big che punta a vincere uno Slam si servirà della consulenza di un ex campione di Major, a un giovane che invece ambisce a un posto tra i primi 100 del mondo, può anche bastare una figura meno importante ma comunque qualificata. Banalmente, uno che quel risultato lo ha già raggiunto in carriera. Verrebbe dunque naturale pensare che una Federazione si avvalga dei servizi dei suoi migliori ex giocatori per formare la generazione dei tennisti del futuro. Invece, scorrendo la lista dei 38 giocatori italiani capaci di arrivare tra i top 100 nell’Era Open, si scopre che pochissimi sono impegnati in ambito federale. Alcuni hanno perfino abbandonato il mondo del tennis, tanti altri lavorano privatamente, talvolta senza ambizioni di seguire un giocatore professionista.

Escludendo i nove giocatori ancora in attività (Fognini, Seppi, Lorenzi, Bolelli, Cecchinato, Fabbiano, Giannessi, Vanni e Cipolla) ne restano ventinove. Tagliando anche i sette che hanno preso altre strade lontano dal mondo dell’insegnamento (Panatta, Bertolucci, Gaudenzi, Cancellotti, Ocleppo, Mulligan e Tieleman), oltre al povero Federico Luzzi che ci ha lasciato prematuramente, si scende a quota ventuno. Di questi, quanti sono impegnati in attività federali? Tre. E l’unico a tempo pieno è Corrado Barazzutti, che dal 2001 ricopre il ruolo di capitano di Coppa Davis (e di Fed Cup nel periodo 2002-2016), mentre i due innesti più recenti, Filippo Volandri e Stefano Pescosolido, sono a disposizione della Fit solo part-time, per un numero concordato di settimane. Volandri, dopo l’addio al tennis giocato del 2016, è impegnato come consulente tecnico per la Fit e segue alcuni raduni a Tirrenia, dando una mano nel progetto Over 18. Tuttavia, l’impegno è fissato in circa 20-25 settimane, perché vi sono anche gli impegni da telecronista di Sky Sport a cui non vuole sottrarsi (e faceva un certo effetto vederlo agli Internazionali d’Italia in giacca e cravatta a spiegare sulla lavagna elettronica le scelte tecnico-tattiche dei top player, piuttosto che in t-shirt e pantaloncini a seguire le nostre migliori speranze). Pescosolido invece, alterna il lavoro da direttore del settore tennis allo Sporting Club Milano 3 a quello di capitano della nazionale maschile under 16, oltre che di tecnico responsabile per i giovani più promettenti della Lombardia delle classi 2003, 2004 e 2005. Il discorso non cambia se si guarda lontano dalla Federazione: dei nostri attuali top players, da quelli già affermati ai giovani in rampa di lancio, l’unico ad aver scelto come guida un ex top 100 è Matteo Berrettini, cresciuto e ancora adesso seguito, seppur non in tutti i tornei, da Vincenzo Santopadre. Un caso che il laziale sia il più avanti di tutti malgrado sia partito in ritardo e si sia fermato più volte? Forse no.
Ne deriva che figure che potrebbero diventare determinanti si ritrovano a vivacchiare in qualche tennis club, senza velleità di professionismo o lontane dal settore tecnico. Almeno quello italiano. Dando uno sguardo all’elenco dei nostri top 100, la più grande perdita per il movimento tricolore, in termini di carriera disputata e capacità manageriali, è Andrea Gaudenzi. Classe 1973, di Faenza, è stato numero 18 del mondo nel 1995, con tre titoli ATP in bacheca ma anche una laurea in giurisprudenza e un Master in Business Administration, iniziato nel 2003, immediatamente dopo l’addio al tennis giocato. Aveva già capito, insomma, che nel suo futuro non ci sarebbe stato spazio per l’insegnamento. «Ho deciso di non intraprendere quel percorso – racconta – perché ho sempre voluto provare nuove strade e inserire nuove esperienze nel mio bagaglio culturale. Strade diverse rispetto a quello che sarebbe stato un naturale prolungamento del mio passato da giocatore e che probabilmente mi avrebbe annoiato». Così ha iniziato aprendo una attività come manager di giocatori, Fabio Fognini e Andreas Seppi per cominciare, e da lì è partita la sua scalata, fino alla scelta di lanciarsi nella carriera imprenditoriale. Da Londra, dove si è trasferito, oggi collabora, investe e lavora per varie aziende startup nel mondo della tecnologia e del digitale. E negli ultimi anni si è anche riavvicinato al tennis: per la Fit si occupa delle relazioni con ATP e WTA per gli Internazionali d’Italia, e da qualche mese fa parte del board di ATP Media, la società che commercializza i diritti dei tornei del circuito. E il campo da tennis non gli è mai mancato. «Ho sempre pensato di aver fatto la scelta giusta. L’insegnamento è una vocazione e io non ne ho mai avvertito il desiderio. Magari, avessi scelto quella strada, non sarei riuscito a portarla avanti. Come ogni mestiere richiede capacità, attitudine e requisiti, e quelli che servono per fare l’insegnante di tennis non credo mi appartengano. L’unico esperimento lo faccio con i miei figli di 6, 8 e 10 anni. Giochiamo nei week-end e mi piace. Ma solo perché sono i miei figli». Secondo Gaudenzi, non c’è da sorprendersi che pochissimi ex campioni del tennis tricolore siano sotto contratto con la Federazione: «Giocare e allenare sono due mestieri diversi e chi è stato fra i top 100 non deve necessariamente essere preso in considerazione per un ruolo da coach o direttore tecnico. Agli ex giocatori serva umiltà per mostrare il loro valore come tecnici e devono dimostrare che la loro esperienza agonistica li tenga un passo avanti agli altri. Per insegnare servono tante abilità, intelligenza e preparazione. Componenti che il passato sul campo non sempre garantisce. L’esperienza è importante, ma gli vanno affiancate anche capacità e passione. Se tutto questo si combina perfettamente, allora un ex top 100 può avere una marcia in più». A sentirlo parlare, aumenta l’impressione che farci quattro chiacchiere ogni tanto potrebbe far bene ai nostri giovani. Per esempio, è servito molto a Fabio Fognini, che avrà un sacco di lacune, ma rimane il miglior giocatore italiano degli ultimi trent’anni, capace di costruirsi una carriera di altissimo livello non solo grazie a un talento enorme, ma anche per l’attenzione rivolta verso strategie e investimenti. «Ho cercato di indirizzarlo e fargli capire aspetti importanti per il suo futuro. Gli ho suggerito alcuni libri di psicologia per migliorare il suo atteggiamento e vivere la partita in modo migliore. Al di là di tutto, la sua è una signora carriera. Quando abbiamo cominciato a lavorare insieme che era ancora uno juniores, tutti avremmo firmato per arrivare al numero 13 del mondo: io, lui, suo padre e chiunque altro. Gli ho sempre suggerito di investire e di puntare su persone di qualità e l’ha fatto». Peccato che nessuno dei nostri giovani abbia scelto di seguire la strada di Fabio e avvalersi dei servizi, seppur part-time, di Gaudenzi: «Sarei disposto a dare una mano da un punto di vista organizzativo, manageriale e di strategia, per valutare come impostare un’attività junior, le fasi del passaggio al professionismo e altre scelte di questo tipo. L’importante è che non si parli di lavorare su un campo da tennis».
Un altro che ha lasciato completamente (o quasi) il tennis è Francesco Cancellotti, 54 anni. Meno noto di altri, ha un best ranking da numero 21 del mondo che lo colloca nella top 10 italiana dell’Era Open. È stato proprietario di un circolo nella sua Perugia, dove aveva iniziato a lavorare come maestro, e durante il primo mandato da presidente Fit di Angelo Binaghi (2000-2004) era fra i consiglieri federali, anche se vi è rimasto solo un anno e mezzo. Poi ha lasciato tutto, perché l’azienda di famiglia specializzata nella produzione di prefabbricati nel settore delle infrastrutture, richiedeva sempre più attenzioni. «Mi sono reso conto – spiega oggi, da amministratore delegato – di non riuscire più a fare altre cose, quindi ho dedicato tutto il mio tempo all’azienda. Non mi è mai stato chiesto di far parte di progetti federali legati all’insegnamento, ma anche se mi piacerebbe molto non potrei accettare la proposta. Mi manca il tempo materiale. Penso che sia una strada molto impegnativa, che assorbe al 100%. Se si prende l’impegno di seguire i giovani deve essere un lavoro quotidiano, non si possono lasciare da soli neanche per una settimana. Bisogna stargli vicino, verificare il percorso di crescita. Insomma, sarebbe molto complicato». Di fatto, il tennis è praticamente uscito dalla sua vita, e il suo unico impegno attuale è la collaborazione con Marcello Marchesini nell’organizzazione dei tornei Challenger di Todi e Perugia, di cui è direttore. «Ho visto dei ragazzi interessanti e ho parlato a lungo con Umberto Rianna: lui lavora a tempo pieno per la Fit ed è una persona valida e qualificata. Credo che questo potrebbe portare dei risultati già nel breve periodo. Tuttavia, siamo una delle poche federazioni in cui gli ex giocatori non sono così coinvolti nella struttura federale e questo è uno dei problemi principali del settore tecnico. Credo che il presidente Binaghi dovrebbe valutare bene questo aspetto: gli ex giocatori sono una risorsa e sarebbe opportuno sfruttarli di più perché chi ha giocato a tennis a certi livelli ha qualcosa in più da offrire. Non me ne voglia chi non è stato così forte, ma chi si sta affacciando al mondo dei professionisti, se avesse accanto gente che ci è già passata, potrebbe trarne vantaggio».
È d’accordo anche Omar Camporese, un passato da numero 18 ATP, come Seppi e Gaudenzi. Nel periodo 1991-1992, prima di un brutto infortunio al gomito che l’ha limitato fortemente, ha dato l’impressione di giocarsela con quasi tutti i più forti. Oggi, dopo un lungo peregrinare fra Bologna, Roma, di nuovo Bologna e Padova, da oltre due anni è direttore tecnico del Green Garden di Mestre, nel Comune di Venezia. «Il tennis – spiega – non è uno studio biomeccanico, non si impara sui libri, ma si vive sul campo. Un ex giocatore conosce le emozioni e come gestire i momenti di vita che capitano a un tennista. Per questo nota certi aspetti in anticipo e parte certamente avvantaggiato rispetto ad altri». Ma come è possibile che uno della sua esperienza, con alle spalle trenta incontri di Coppa Davis, due titoli ATP vinti di ottimo spessore (Milano e Rotterdam) e tante vittorie contro alcuni dei più grandi giocatori della sua epoca, non sia mai stato preso in considerazione dalla nostra Federazione? «Suppongo che la FIT abbia valutato altre persone più adatte a certi incarichi e stia andando avanti con loro». Si finisce di nuovo lì, a quei 25 su 38 finiti altrove. Tanti, troppi. «C’è chi ha cambiato mestiere e fa tutt’altro, però a me non è mai arrivata nessuna richiesta. Se la Federazione dovesse farsi avanti sarei ben lieto di valutare la loro proposta. Io ascolto sempre ogni idea, poi valuto che cosa è meglio». Camporese è soddisfatto del suo lavoro a Mestre: ha costruito un progetto a medio e lungo termine e i risultati gli stanno dando ragione. «Il tennis è stato la mia vita e continua ad esserlo. Trasferire tutte le emozioni, belle e sane di questo sport, è qualcosa che mi rende felice». Tuttavia, per chi ha frequentato per anni il circuito ATP, i tornei del Grand Slam e la Coppa Davis, non dev’essere facile trovarsi a lavorare in un club. «Devo essere sincero: il mio vecchio ambiente mi manca, però avendo una famiglia non ne faccio una tragedia. Ma se mi arrivasse un’offerta veramente interessante potrei anche pensare di tornare a viaggiare nel circuito pro. Avevo ricevuto una proposta in passato, ma mi ero appena ritirato e non avevo la voglia necessaria. Oggi ci penserei».
Altro aspetto da non sottovalutare è quello economico. Per chi da giocatore ha guadagnato a sufficienza da potersi permettere di non lavorare, o di farlo senza dannarsi troppo, la scelta di accettare un incarico a tempo pieno non solo deve avere degli stimoli importanti, ma anche una retribuzione proporzionale, soprattutto quando si è già dimostrato le proprie capacità come coach. Al momento, non sembra che la Federtennis abbia intenzione di accettare queste normali condizioni di mercato. L’esempio perfetto è quello di Davide Sanguinetti, che insieme ad Adriano Panatta è l’unico italiano ad aver giocato un quarto di finale a Wimbledon, nel 1998, oltre ad aver vinto due titoli ATP e trascorso una decina d’anni fra i top 100. Subito dopo il ritiro, il 45enne di Viareggio ha iniziato a fare il coach, dimostrando immediatamente doti importanti, prima con Vince Spadea, poi col giapponese Go Soeda (trascinato nella top 50 mondiale, una sorta di miracolo sportivo) e ora con Di Wu e Ryan Harrison. Sotto la sua guida, Wu è diventato il primo cinese a vincere un torneo Challenger, mentre Harrison è rinato, quando negli Stati Uniti lo ritenevano finito, tanto da vincere il primo titolo ATP a febbraio e ritoccare il suo best ranking a luglio. Esperienze che certificano le qualità del tecnico che, unite ai trascorsi importanti da giocatore, ne fanno lievitare la richiesta economica. «Credo che il budget attualmente a disposizione per i tecnici non sia in grado di soddisfare le mie esigenze. Oggi la Federtennis supporta economicamente i giocatori ma dovrebbe anche spingerli ad affidarsi ad allenatori di livello, investendo su tecnici di esperienza che possano aiutarli nel delicato percorso verso il professionismo». Risultati alla mano, fra gli italiani che non hanno mai allenato un giocatore azzurro, Sanguinetti sembra il più attrezzato. Eppure mai nessuno lo ha cercato. A Wimbledon, data l’assenza di coach Eduardo Infantino, ha dato una mano a Simone Bolelli e l’esperienza ha soddisfatto entrambi, tanto che potrebbe ripetersi in futuro. «Alleno giocatori stranieri perché non ho mai ricevuto una proposta da un italiano. Mi piacerebbe allenare un azzurro, come anche ricoprire l’incarico di capitano di Coppa Davis, il giorno in cui Corrado Barazzutti deciderà di lasciarlo. Certo, si tratterebbe di un ruolo incompatibile con quello di coach privato di un giocatore perché si creerebbe un conflitto di interessi, ma alla Nazionale non saprei dire di no». Oggi Sanguinetti è impegnato per circa 30-35 settimane all’anno ed è disposto ad aumentarle solo ricevesse una proposta importante, magari da un giocatore di altissimo livello. «Quello del coach non è un cattivo lavoro e si guadagna bene, specie se si hanno alle spalle delle risorse economiche sufficienti che permettono di non essere schiavi degli umori del giocatore. Tuttavia, il lato negativo è l’obbligo a viaggiare moltissimo. A me non pesa troppo, ma credo sia il principale motivo per cui tanti ex giocatori hanno scelto di non intraprendere questo percorso. Li capisco: se non sei stimolato da un progetto importante e ben retribuito, chi te lo fa fare?».
Sanguinetti è uno di quelli che ha trovato fortuna all’estero, come Cristiano Caratti, che le ultime notizie collocano al lavoro negli Stati Uniti, e Claudio Pistolesi, che dopo varie esperienze internazionali di successo (al fianco di Seles, lo stesso Sanguinetti, Bolelli, Soderling e altri) ha trovato casa in Florida. Il cinquantenne romano, numero 71 del mondo nel 1987, stagione in cui ha vinto il titolo ATP di Bari, si è trasferito a Jacksonville, Florida, per motivi personali, visto che la moglie Cristina lavora nella sede principale dell’ATP a Ponte Vedra Beach. Tuttavia, non ha dimenticato il passato e nemmeno i suoi scontri con la Federtennis, avversaria negli anni scorsi anche nelle aule dei tribunali. «Cosa mi piace degli Stati Uniti? Che ogni contea (territorio paragonabile alle nostre province, n.d.r.) ha l’obbligo di costruire, in base al numero di abitanti, un certo numero di impianti sportivi pubblici, dove tutti possono praticare sport gratuitamente. Qui lo sport è di tutti, non di chi vince delle elezioni fra i circoli che hanno interesse a tenersi buona la maggioranza che si candida. E il rapporto tra tesserati e federazione non passa dai club». Pistolesi è uno dei pochi ad avere un’idea ben chiara del motivo per cui le stelle del tennis italiano hanno preferito altre strade rispetto alla carriera nel settore tecnico federale. «Tranne rare eccezioni, chi ha vissuto il professionismo sulla propria pelle ha difficoltà a lavorare con dei dilettanti quali sono, per definizione, i dirigenti sportivi italiani. Detto questo, bisognerebbe vedere, tra gli ex giocatori, chi può dimostrare di essere all’altezza di guidare progetti importanti. Per esempio in Italia abbiamo delle figure come Alberto Castellani e Riccardo Piatti che, pur non essendo stati professionisti di alto livello, stanno scrivendo la storia del coaching a livello nazionale e non solo». Ma Claudio Pistolesi sarebbe disposto a mettere una pietra sul passato e tornare in Italia? «Non in maniera permanente. Risiedo in Florida e mi piace molto vivere lì. Però ho ancora legami molto stretti con l’Italia e sono fiero del fatto che continui a far parte della mia vita. Una delle sedi partner della Claudio Pistolesi Enterprise, la società di cui sono fondatore e presidente, è a Calenzano, in provincia di Firenze, alla Professione Tennis di Erasmo Palma». In più, attraverso il percorso universitario, Pistolesi sta aiutando numerosi giovani tennisti italiani dal buon potenziale, come Giovanni Oradini e Giulia Pairone. «Contatti con la Fit non ne ho più avuti, ma se un giorno dovessero riconoscermi il bene che ho fatto dedicando la mia vita al tennis italiano, prima come campione del mondo juniores, poi come professionista vincitore di un titolo ATP, quindi come uno degli allenatori italiani più vincenti, e infine anche come dirigente, visto che sono stato eletto per quattro volte dai miei colleghi come rappresentante dei coach nel consiglio dell’ATP, allora forse potrei fare qualcosa di importante. Ma dubito che succederà».
In molti casi, il coinvolgimento degli ex top 100 potrebbe essere realizzato anche tramite una consulenza per un periodo determinato, purché effettiva, sul campo, e con quel rapporto one-to-one che può diventare determinante. Se Murray per sfatare il tabù Slam ha chiamato Lendl e Djokovic si gioca la carta Agassi per rialzare la testa, a Berrettini, Donati e gli altri azzurri emergenti potrebbe bastare un Alessio Di Mauro per fare un passo importante all’interno del circuito professionistico. Il siciliano non è stato un fenomeno, ma è comunque arrivato al numero 68 del mondo, con una finale ATP in bacheca. E di sicuro, saprebbe insegnare ai nostri giovani cosa vuol dire sacrificarsi: «Se penso di poter essere utile al tennis italiano? Sicuramente”, dice il 40enne di Siracusa, che si è messo in società col suo storico coach Fabio Rizzo, creando una bella realtà al Cus di Catania. “L’aiuto di una persona che ha giocato i tornei dove i nostri giovani puntano ad arrivare può facilitare il compito, anche se poi sono i ragazzi che devono tirare fuori le armi. Una cosa importante è valutare bene il settore in cui un ex giocatore viene inserito: l’esperienza può essere molto più utile per allenare un under 18 che un under 12». A onor del vero, Di Mauro dei contatti con la Fit li ha avuti, addirittura quando era ancora in attività, come se non volessero proprio lasciarselo scappare. «Mi sono arrivate una serie di proposte: a tempo pieno o anche solo per qualche settimana, però dopo vent’anni di carriera non me la sono sentita di prendere un impegno che mi obbligasse di nuovo a viaggiare tanto, rimanendo tante settimane lontano da casa. Credo che l’idea di investire su degli ex giocatori ci sia, un po’ come avviene in Francia, però se solo tre ex top 100 hanno accettato, un motivo ci sarà. Nel mio caso comunque, sono stato io a dire di no, preferendo dedicarmi al percorso che sto portando avanti con Rizzo. Per ora sono contento così, l’attività sta andando bene e veder crescere giorno dopo giorno un progetto creato con le proprie forze è molto stimolante».
Un altro che si è gettato in una realtà auto-prodotta è Paolo Canè, che da parecchi anni ha lasciato la sua Bologna per migrare in Lombardia. Su due campi sintetici a Gorle, alle porte di Bergamo, da quattro anni il 52enne emiliano ha fondato la Paolo Canè Tennis School. «Una palestra anche per me – racconta –, visto che non avrei mai pensato di avere questa pazienza e costanza nell’insegnare. Sfido chiunque abbia frequentato per una vita gli ambienti internazionali ad aprire una scuola dal nulla e a ricominciare dalla Sat, stando in campo otto ore al giorno». In effetti, fa strano che uno che è stato numero 26 del mondo, regalando grandi emozioni al pubblico italiano, oggi non rivesta un ruolo di maggior spessore. «Vero, però faccio qualcosa che mi piace e sono contento di come sta andando. È faticosissimo, ma funziona. Ci sono dentro al 100%, con tutte le mie forze». Alla sua, di porta, non ha mai bussato nessuno. «Non mi hanno mai cercato e io non mi sono mai candidato. In altre Federazioni come Francia Spagna e Germania, gli ex giocatori di alto livello vengono subito coinvolti nel progetto federale, mentre in Italia non è così: chissà perché. Sicuramente se la Fit ha scelto di affidarsi ad altre figure è perché le ritiene all’altezza, anche se i risultati dicono che fanno fatica a imporsi, in un ambiente comunque molto difficile». Proprio per questo, un aiuto da chi ha già vissuto certe situazioni dovrebbe far comodo. «Credo che in tanti avrebbero qualcosa da trasmettere. Non è detto che chi ha giocato a certi livelli possa insegnare meglio di altri, e infatti non ne faccio un discorso di dritto o rovescio. Però sono convinto che gli ex giocatori potrebbero rappresentare un valore aggiunto per i giovani che provano a fare il salto nel mondo dei professionisti, perché sono percorsi che abbiamo già attraversato. Un buon coach deve infondere tranquillità, aiutare il giocatore a capire l’avversario e la tattica da applicare, spiegargli cosa si prova in certi momenti. I colpi li possono allenare tutti, mentre su determinati aspetti può intervenire solo chi li ha vissuti sulla propria pelle. Per esempio, secondo me viene allenata poco la parte mentale, ma per farlo servirebbero coach che certe situazioni le conoscono davvero». Tipo Paolo Canè? «Per il bene del tennis italiano e del futuro dei nostri giovani sarei contento di offrire la mia esperienza. Ho sempre difeso i colori del mio paese, quindi perché no? Grazie a Dio di energia ne ho ancora a sufficienza e la metterei volentieri a disposizione dei giovani».
Nel lungo elenco di giocatori che sono rimasti lontani dalle logiche federali, c’è anche qualcuno che la tuta della Fit l’ha indossata. Come Tonino Zugarelli, che dei quattro moschettieri della storica Davis del 1976 è l’unico che lavora ancora sul campo, nella sua accademia di Sutri, provincia di Viterbo; oppure Paolo Bertolucci, che prima di diventare telecronista per Sky Sport è stato direttore tecnico nazionale per tre anni e capitano di Coppa Davis per altri quattro, o Simone Colombo. Classe 1963, “Simba” è stato l’unico top-100 al maschile della Lombardia (statistica che meriterebbe un approfondimento), oltre che il capitano della storica Davis Cup junior vinta dall’Italia con Quinzi e Baldi, e ha anche lavorato a Tirrenia. Ma, terminato l’incarico, ha addirittura abbandonato ogni attività nel mondo del tennis. Ancor più importante il caso di Renzo Furlan, che ha lavorato per la Fit dal 2003 al 2013, prima come direttore del Centro Tecnico Federale di Tirrenia, poi come responsabile dei giocatori under 20. Ora ha lasciato l’incarico, e, oltre a essere coach part-time di Jasmine Paolini, l’ex numero 19 ATP è sempre responsabile degli under 20 ma... per la Federazione serba! «Nel 2011 – spiega – ci fu una proposta di rinnovo sulla base dell’impegno precedente, ma non ero più interessato a quel tipo di lavoro. Sentivo la necessità di fare qualcosa di più specifico, sul campo. Nel 2011 mi sono diviso fra il ruolo da coach di Simone Bolelli e il vecchio incarico. Nel 2013 invece, non ci furono più proposte di rinnovo, ma comunque ero già orientato a cercare un progetto più specifico». Emerge che Furlan non crede molto in discorsi di tipo collettivo, preferendo il rapporto diretto con un giocatore. «Se parliamo di esperienza da trasmettere, credo di essere in grado di farlo meglio con un singolo atleta. Ora sto lavorando con la Paolini e credo di poterle dare una mano: ci sono dinamiche che lei non conosce e sto cercando di aiutarla. Deve crearsi una bella alchimia tra tennista e allenatore perché puoi essere il miglior coach del mondo, ma se non c’è quella il rapporto non funziona».

Avendo provato la strada federale italiana, quella di coach privato e pure quella federale all’estero, il 47enne veneto è l’uomo giusto per rispondere alla fatidica domanda: come mai soltanto tre ex top 100 lavorano per la Fit? «Qualcuno ha cambiato tipologia di lavoro, altri hanno preferito la tranquillità di un circolo. Lavorare per la Fit comporta una certa responsabilità perché seguire i giovani più forti è positivo, ma ci sono parecchi doveri. Ma è ovvio che gli ex top 100 sono un patrimonio che andrebbe sfruttato, mentre ad alcuni non è mai stato nemmeno proposto di entrare in un progetto federale». Secondo Furlan, un ex giocatore parte con un vantaggio enorme in termini di esperienza, ma per trasmetterla ha comunque bisogno di un percorso di apprendimento. «Devi capire che esperienza hai vissuto, com’è cambiato il tennis, in che direzione sta andando e che tipo di messaggio devi dare. Mi è capitato di parlare con ex giocatori, anche stranieri, che pur essendo stati molto forti non sanno quale sia il messaggio corretto da trasmettere adesso. Io stesso, oggi, alleno in maniera completamente diversa: mi focalizzo su concetti che dieci anni fa non ritenevo così importanti. Ho imparato tante cose confrontandomi con vari tecnici perché solo così si riesce a trasmettere le esperienze vissute».

Furlan ha ragione quando dice che essere stati ottimi giocatori non basta, e che sarebbe comunque necessario un percorso di formazione. Ma farlo partire non spetta certo agli ex tennisti. Al netto delle decisioni di vita di ognuno, è emerso che la gran parte dei top 100 italiani all-time non siano mai stati avvicinati per sondarne la disponibilità a collaborare con la Federazione, facendo sì che tonnellate di esperienza, di anni passati tra i primi 100 del mondo, di partite nei tornei del Grand Slam, vittorie e sconfitte, decisioni giuste e sbagliate (da non ripetere) siano oggi confinate in progetti privati, in Italia ma anche all’estero. Uno spreco enorme di risorse che va a gravare sul nostro tennis. È questo il punto sul quale dovrebbero riflettere dirigenti, tecnici, ex giocatori e professionisti attuali. Se è vero che prevenire è meglio che curare, non è mai troppo tardi per correre ai ripari. Specialmente quando la gran parte degli ex giocatori è pronta a mettersi a disposizione.

(Inchiesta pubblicata sul numero di agosto-settembre di "Il Tennis Italiano")
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