Lorenzo Cazzaniga - 16 July 2019

IL CORAGGIO DI SABBO

Salvatore Caruso è partito da Avola, un piccolo paesino della Sicilia celebre per il vino, ed è arrivato sul campo Philippe Chatrier di Roland Garros a giocarsi il terzo turno di uno Slam contro il numero uno del mondo, Novak Djokovic. Un percorso fatto di tanti sacrifici, in un mondo per nulla semplice. «Perché il tennis è pugilato senza i pugni e non sempre si può essere dei gentlemen»

Siamo nell’ufficio di Giordano Maioli, patron di Australian, uno di quei davisman capaci di creare un brand di abbigliamento di successo, come accaduto a Sergio Tacchini, a René Lacoste, a Fred Perry. Davanti a lui, uno dei suoi testimonial, Salvo Caruso, 26 anni, numero 125 del mondo, il nono azzurro meglio classificato. Maioli gli mostra una foto d’epoca: è con Tacchini, gli avversari sono Ion Tiriac e Ilie Nastase. Sabbo ascolta affascinato quei racconti: «Tiriac era già un fenomeno come manager - racconta Maioli -. Una volta mi chiama e dice: ‘Giordano devi venire a giocare due tornei in Romania’. Il mio cachet era di 300 dollari. Mi rispose: ‘Te ne offro 200 e devi accettare per due ragioni: perché sei str... e perché sei mio amico’. Me li diede in valuta rumena, carta straccia. Era un altro tennis, un altro mondo. Comunque Sabbo, se devi allenarti contro il back posso ancora scendere in campo a giocarti quelli veri, affettati, che non si alzano. Non quelli che giocate voi adesso» aggiunge scherzando, prima di affettare l’ennesimo salamino, mentre Caruso ci racconta come è partito da Avola ed è arrivato al terzo turno di Parigi, sognando la top 50 e la Coppa Davis.

Dunque, come si parte dalla Sicilia e si arriva al terzo turno di uno Slam? Il percorso appare tortuoso…
Non credo sia tanto diverso rispetto ad altre parti. Ci sono alcuni aspetti che non cambiano: servono tanto lavoro e le persone giuste al tuo fianco. Io ho avuto la fortuna di trovare un coach come Paolo (Cannova) che ha investito tanto sulla mia crescita e insieme abbiamo intrapreso la strada giusta. Forse a Milano e Roma ci sono strutture migliori ma il percorso è quasi obbligato.

Però la mentalità non è un po’ diversa?
Probabile. Quando ero un ragazzino e dicevo di voler fare il tennista professionista mi guardavano strano e pensavano che, bene che andasse, sarei finito all’università. Però noi siciliani siamo molto caparbi e fare qualcosa che pochi credono possibile, diventa uno stimolo. Ricordo quello che disse un mio concittadino (Caruso è di Avola, cittadina celebre soprattutto per il vino n.d.a.) Luigi Busà, campione del mondo di karate, siamo un po’ pazzerelli ma con la testa dura: se c’è un obiettivo raggiungibile, prima o poi ci arriviamo.

Sei cresciuto in un piccolo paesino del Sud Italia dove le opportunità non sono sempre straordinarie: c’era anche un po’ di desiderio di rivalsa?
No, perché non credo sia impossibile partire da Avola e arrivare al terzo turno di Roland Garros. C’è solo una mentalità più chiusa e su questo Paolo ha lavorato tantissimo perché il tennis è uno sport internazionale e devi essere ambizioso. Però sia chiaro, non mi sento certo arrivato e spero che il risultato della vita debba ancora conquistarlo.

Hai cominciato a giocare a tennis per caso, leggendo un volantino…
Ricordo perfettamente il momento: ero in una viuzza che dalla piazza principale porta verso casa e c’erano quelli che sarebbero diventati i miei primi maestri, Andrea Salinitro e Maurizio Sicumano, che promuovevano la scuola tennis. Ora siamo grandi amici, mi seguono nelle partite più importanti e ripetono a tutti che il merito è tutto loro che battevano le strade di Avola con i volantini! Credo molto nel destino.

Spesso i ragazzi si avvicinano al tennis grazie ai genitori, che poi talvolta diventano figure ingombranti: da questo punto di vista lo ritieni un vantaggio non aver avuto in famiglia degli appassionati di tennis?
Il vantaggio è stato avere due genitori intelligenti che non mi hanno mai messo pressione. Mia madre è insegnante, mio padre ha un negozio in centro ad Avola di intimo e corredo che fino a dieci anni fa funzionava in maniera incredibile: hanno ricostruito tutta la casa con quello che guadagnava. Però lui è sempre stato il mio primo tifoso, mentre mia madre era più preoccupata: ‘Sempre con ‘sto tennis, u’ piccirillu sacrificato’. Usava sempre questa parola, sacrificato. Anche oggi mia madre è molto silenziosa: quando al Foro Italico ho giocato con Kyrgios, si è messa in un angolo del box e non credo abbia visto un punto. Anche mio padre non voleva venire a Parigi, ma quando sono arrivato al terzo turno e ho visto che avrei giocato contro Djokovic sul centrale, non ho accettato scuse, li volevo tutti lì.

Quali sono stati i tuoi maestri?
Ho cominciato ad Avola con Cosumano e Salinitro, poi sono passato con Giuseppe Santoro, quindi con Giuseppe Bastante e poi a 13 anni mi sono spostato al Tennis Club Siracusa, con Germano Scuriatti. Ci sono rimasto due anni, poi sono andato al Match Ball di Siracusa con Claudio Rudilosso per tre anni e, da quando ne avevo diciassette, con Paolo Cannova.

Quanto sono stati importanti i maestri di base?
Il mio è stato un percorso un po’ particolare: dai 6 ai 13 anni, il tennis era solo un gioco, mi allenavo tre volte a settimana. È diventato qualcosa di più serio quando ho cominciato con Scuriatti perché aveva un’esperienza diversa, più votata all’agonismo. Difficile dire quanto siano stati decisivi quegli anni, però dai 14 anni in poi è necessario avere una guida esperta che ti insegni la giusta mentalità. Tutti i primi trecento giocatori del mondo giocano benissimo a tennis, ma quello che cambia è il modo di pensare e agire, dentro e fuori del campo.

Nel tennis non ci sono tanti casi di rapporti tra coach e giocatore che sono durati un’intera carriera, ma alcuni sono proprio made in Italy: tu e Cannova, Andreas Seppi e Massimo Sartori, Filippo Volandri e Fabrizio Fanucci, adesso Lorenzo Sonego con Gipo Arbino e Matteo Berrettini con Vincenzo Santopadre: per una volta siamo un buon esempio.
È splendido perché si crea un rapporto di fiducia che va oltre quello professionale. In Italia è successo spesso perché siamo ragazzi di cuore, che si legano alla persona ancora prima che all’allenatore, anche se in campo i ruoli devono essere ben definiti. Però, quando non si parla di tennis, Paolo diventa un fratello maggiore. Io ho sempre avuto questo genere di rapporto con i miei allenatori e la separazione è sempre avvenuta per motivi logistici o perché erano loro che mi dicevano che non potevano darmi niente di più. Hanno sempre voluto il mio bene e questo va ricordato.

Quanto è importante la figura del coach per un giocatore professionista?
Fondamentale ma bisogna trovare l’alchimia giusta. Un allenatore può essere perfetto per me e completamente inadatto per un altro. Serve empatia perché il coach è anche psicologo, conta quello che dice e come lo dice. Paolo sa creare un clima di grande serenità. Io tendo a essere ansioso, lui riesce a farmi restare tranquillo.

Il coach diventa spesso anche il bersaglio degli sfoghi di tanti giocatori, spesso con toni piuttosto accesi.
Succede e l’allenatore deve essere bravo a capire che si tratta solo di uno sfogo. Certo, se diventa un’abitudine e si superano certi limiti, si sfonda la barriera del rispetto e diventa imperdonabile. Perché lui è lì per aiutare il giocatore a esprimersi al meglio. Contro Gombos, nel primo turno delle qualificazioni di Parigi, ho sciupato un’occasione per staccarmi subito all’inizio del terzo set. Ero deluso ma è bastato che Paolo mi dicesse di stare tranquillo, che l’occasione sarebbe tornata, e mi sono rasserenato. E sono andato avanti 5 a 1. Magari è un caso, magari no...

Si lavora anche a livello tecnico?
Certamente ma su piccoli dettagli. Per esempio il lancio di palla nel servizio. Non il gomito, la testa della racchetta, il polso: solo il lancio. Prima era molto basso: a forza di tira su, tira su, tira su, ora va meglio. Prima nei momenti di tensione me la tiravo sul naso.

In questo senso, gli Slam fanno la differenza.
Assolutamente. L’obiettivo è arrivare a giocarli perché ti cambiano la vita, in tutti i sensi. A volte giochi un Challenger e ti accorgi che stai battagliando per duecento euro e magari ti vien voglia di sciogliere, negli Slam parli di decine di migliaia di euro e nessuno ti regala un quindici. Io sono stato fortunato a far risultato a Parigi; poteva tranquillamente succedere in un ATP 250 e avrei preso un decimo dei soldi.

I giocatori parlano spesso dell’aspetto mentale come di quello predominante e di questa benedetta fiducia: ma in cosa consiste realmente?
Più che di fiducia, io parlo di serenità. La differenza è come inquadri la situazione: se perdi cinque match di fila ma sei tranquillo perché sei convinto che il tuo momento arriverà, è tutto più facile. Se inizi a pensare negativo e ti massacri il cervello, hai finito di cucinare. La fiducia deriva dalla serenità. E comunque è fondamentale la sicurezza in se stessi: a tennis, il primo avversario sei tu.

Il tuo gioco ti porta a lottare ogni match: difficilmente sommergi l’avversario di colpi vincenti ma è altrettanto dura farti il punto. Così però non rischi di logorarti in fretta e quanto si allena la capacità di non mollare?
Si può allenare ma tanto arriva da dentro. Io mi diverto più a scambiare trenta colpi che a fare boom-boom. Di base devi essere pronto sia mentalmente sia fisicamente.

E nella lotta aiuta non essere sempre dei gentlemen?
Boia! Bisogna essere un po’ stronzi. Il tennis è pugilato senza i pugni perché con lo sguardo dici tante cose. Dentro il campo non ci sono amici ma solo avversari da battere. Serve chiamare un medical time-out per spezzare il ritmo? Lo fai. Lo fanno tutti. Bisogna essere furbi.

Chi è per te l’avversario?
L’ostacolo che la vita ti mette davanti quel giorno e tu devi dimostrare di saperlo superare.

Per arrivare dove? Per esempio, se ti proponessi una carriera come Paolo Lorenzi, firmeresti?
Tagliami tutto! Per me Paolino è un esempio: tecnicamente non ha delle armi pazzesche e per questo è un fenomeno. Per il tennis che esprime doveva essere 600 al mondo e invece è stato trenta. Così come un altro siciliano come me, Alessio Di Mauro. Lo vedevi giocare e pensavi non avrebbe mai conquistato un punto ATP e invece è arrivato al numero 68. Per me sono dei fenomeni, persone che quando si guardano allo specchio possono ritenersi fieri di quello che hanno fatto.

E tu, dove dovresti arrivare per sentirti così?
Primi cinquanta. Primi cinquanta, firmerei. E lo dico in maniera ambiziosa perché è già un livello molto alto. E se qualcuno pensa il contrario, vuol dire che non conosce il tennis.

Tecnicamente il tennis si sta ancora evolvendo?
Diventa tutto sempre più veloce e, lontano dalla terra, è difficile vedere tanti scambi. Però su YouTube guardo fenomeni di tecnica come Rios, Safin o Nalbandian, talenti da far paura.
Anche se tu preferisci la lotta...
E infatti devo aggiungere Hewitt: avrebbe venduto la madre per vincere una partita ed è un po’ così che devi pensare, pur evitando gli eccessi.

Tutti picchiano forte e rifiutano gli scambi lunghi, tu sei l’opposto. Può essere un vantaggio visto che nessuno è più abituato ad affrontare avversari col tuo stile?
Può essere. Cerco di portarli in un territorio sconosciuto. Sai, quando un giocatore vede che la palla torna sempre indietro, si innervosisce perché non sa più come farti il punto. Tutti sanno che quando giocano contro di me, devono essere pronti a lottare. Io prenoto il campo tre ore, in cinquanta minuti non vincono di sicuro! È la mia forza.

Quindi sarai contrario alle nuove regole che stanno testando per ridurre la durata dei match.
Il punteggio non lo toccherei mai. E anche il no-let non mi pare una grande idea. Bisogna evolversi ma senza snaturare il gioco. Sono d’accordissimo sul far rispettare i 25 secondi ma devi mettermi lo shot clock sul campo. Io ho preso warning anche nel primo game perché, da buon siciliano, sono lento. Però me lo devi far vedere. Infatti a Parigi me ne hanno chiamato uno in sei partite. E poi il tennis è l’unico sport dove ti alleni sempre col tuo coach che però, durante la partita, non può intervenire.

Quindi sei per liberalizzare il coaching?
Sì, ma con un sistema diverso rispetto a quello utilizzato nel circuito femminile. In campo il giocatore dovrebbe restare sempre solo ma si potrebbe permettere al coach di parlare dalla tribuna. Tra l’altro, in questo modo si alleggerirebbe anche il lavoro dei giudici di sedia, così si rilassano un pochino.

Ci sono state stagioni che, con il tuo ranking attuale, saresti stato tra i primi quattro, cinque d’Italia. Ora la concorrenza è alta ma un pensierino alla Coppa Davis l’hai fatto?
Certamente. Adesso hanno pure allargato le convocazioni a cinque giocatori. Sono molto patriottico e per me l’idea di rappresentare l’Italia è un grande stimolo. Quando ho giocato contro Simon a Parigi, c’era anche Barazzutti in tribuna e uno spettatore gli ha urlato: ‘Barazza, convocalo in Nazionale!’. Ecco, speriamo di arrivarci. Sarebbe bello per tutta la Sicilia.

Ma cosa vuol dire essere siciliano?
Appena mi parlano della Sicilia mi si stringe il cuore. Non so cosa farò dopo la carriera ma la mia terra avrà sempre la priorità. Mi piacerebbe anche investire in una struttura perché le potenzialità sono notevoli. E finalmente il turismo è esploso su larga scala: abbiamo luoghi fantastici e si spende poco. Sono legatissimo alla mia terra e la difendo sempre, anche se abbiamo alle spalle una storia difficile. Qualunque straniero incontro, se dico Sicilia mi risponde mafia, anche se i tempi sono cambiati e, come dice mio padre, adesso la mafia ha i colletti bianchi. Io mi sento davvero siciliano perché vengo da una realtà molto piccola e si avverte subito il calore della gente. Avola conta trentamila abitanti e quando ho giocato contro Djokovic potevi tranquillamente fare una rapina perché non c’era nessuno per strada. Avola chiusa per Caruso! Dove altro poteva capitare?

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