Marco Caldara - 21 February 2018

Baby campione, quanto mi costi?

Tanti ragazzini sognano di diventare professionisti, pochissimi ci riescono. Ma anche solo per avere la possibilità servono competenze e (tante) risorse economiche. Abbiamo chiesto a genitori, maestri ed ex giocatori quale sia la strada migliore e quali difficoltà bisogna superare. Ne esce un quadro preoccupante.

Inchiesta pubblicata sul numero di dicembre-gennaio de "Il Tennis Italiano"

Digiti su Google «costi del calcio» e saltano fuori studi economici e bilanci, viri su «costi del basket» e sei più o meno nello stesso mare. Poi passi a «costi del tennis» e di colpo i discorsi sul business volano via, per lasciare spazio ai costi intesi come spese. Tante, troppe. Per fortuna la nomea di sport per pochi sta svanendo, la racchetta non è più (o quasi) un mezzo per ostentare una classe sociale d’élite, e oggi a tennis ci possono giocare tutti. Ma con dei paletti ben precisi, perché i ragazzi che hanno ambizioni di professionismo devono ancora affrontare esborsi significativi. A quel livello, il tennis non è ancora uno sport per tutti. Nemmeno per tanti. La storia insegna che non esiste un singolo giocatore che prima di diventare professionista non abbia investito, tramite la famiglia o chi per loro, delle cifre molto alte, ovviamente senza garanzia di farcela. È inutile nascondersi o creare false aspettative: nel tennis c’è lavoro (inteso come guadagno) per 100-150 uomini e altrettante donne. Chi si ferma prima, si deve armare di parsimonia e buona volontà per far pari. Prendendo in esame i professionisti attuali, la LTA (la Federtennis britannica) ha stimato che nel periodo di età compreso fra i 5 e i 18 anni, le famiglie abbiano sborsato circa 300.000 mila euro per ciascuno. Fanno oltre 21.000 euro all’anno di media: si parte piano e poi si aumenta, sempre di più. Come si riesce a sopravvivere? Semplice: c’è chi può e chi no. E visto che già i potenziali fenomeni sono pochi, se c’è anche da augurarsi che siano di buona famiglia la fascia dei papabili si riduce drasticamente. Ne consegue un enorme problema nel reclutamento di giovani disposti a fare sul serio. Pensare di dare a tutti le stesse possibilità è utopistico, ma come la base dei praticanti si sta allargando in continuazione, bisognerebbe lavorare per far crescere anche quella dei potenziali professionisti del futuro. La via è più difficile, ma va almeno cercata.

Nel settembre del 2010, quando era già una top 100 da tre anni abbondanti, Sara Errani disse che non era ancora sicura di aver raggiunto il pareggio fra gli incassi e tutte le spese sostenute per arrivare fino a lì. I grandi risultati negli Slam sarebbero arrivati dopo e il sito WTA dice che oggi – tasse escluse – la romagnola ha raccolto quasi tredici milioni di dollari di prize money. Ma al tempo erano già un milione e duecentomila, a 23 anni: eppure non si poteva ancora parlare di investimento andato a buon fine. Wikipedia ricorderà in eterno la finale a Roland Garros, papà Giorgio e mamma Fulvia anche i soldi spesi per renderla pensabile, ancor prima che possibile. E chissà come sarebbe andata nei casi di Fognini e Seppi, diventati i due tennisti italiani più forti degli ultimi 40 anni, se da ragazzi non avessero avuto determinate possibilità. Fabio è nato in una famiglia con la disponibilità economica per investire e l’occhio (di papà Fulvio) per farlo nel modo giusto, mentre se Andreas ha tirato fuori il massimo delle proprie possibilità, deve ringraziare coach Massimo Sartori e Alexander Vorhauser, il pasticciere di Caldaro con la passione per il tennis, che decise di costruire un progetto top 100 e trovò le persone disposte a finanziarlo. Qualcosa che oggi risulta sempre più difficile. Per molti circoli gli introiti della scuola tennis sono l’àncora di salvezza, quindi la possibilità di investire sulle stesse scuole non c’è, e gli aiuti di mamma FIT sono destinati a un gruppo ristretto di ragazzi, che si è allargato negli anni ma sempre ristretto rimane. A tutti gli altri tocca raccogliere quel che si trova, visto che trovare qualcuno che investa sui figli degli altri è quasi impossibile.

Una persona che talvolta è andata in controtendenza, scommettendo di tasca propria su alcuni dei suoi allievi, è Laura Golarsa, oggi alla guida dell’Academy all’Aspria Harbour Club di Milano. La domanda è semplice: se arriva un ragazzo che proprio non ci si può lasciar scappare, ma la cui famiglia non ha le risorse economiche necessarie, come si fa a non perderlo? «Non esiste una legge, è soggettivo. Io provo ad andargli incontro. L’ho fatto con tanti, ma oltre alla qualità del gioco devo vedere le motivazioni e sapere che i problemi economici esistono davvero, perché a tutti piacerebbe trovare il benefattore di turno. Spesso, il vero problema dei ragazzi che ho aiutato economicamente non erano i soldi in sé, ma la voglia di mettersi totalmente in gioco. In Italia c’è il problema che dai 16 ai 20 anni chiunque giochi a un discreto livello, e parlo anche di terza categoria, può fare soldi abbastanza facilmente, offrendo qualche ora di allenamento. Io ho finanziato a lungo un ragazzo che batteva gente che oggi è nei primi 50 del mondo, con l’accordo che, qualora a fine anno avesse soddisfatto i criteri richiesti per ricevere i bonus federali, mi avrebbe restituito i soldi. L’ha sempre fatto, ma per lui era molto difficile sacrificare tutto il resto in ottica futura. Faceva fatica ad accettare che per diventare un giocatore fosse costretto ad un sacco di rinunce e a risparmiare su ogni cosa, mentre vedeva a portata di mano una vita comoda e con buoni guadagni. Alla fine ha scelto quella». Ergo, i soldi non sono tutto, bisogna capire anche cosa un ragazzo ha dentro. «Serve – continua Golarsa – quella che in gergo chiamiamo fame, ma che nel nostro paese non va di pari passo con la fame economica, e tanti ne approfittano. Mi è capitato di aiutare dei ragazzini cercando di fargli avere gratuitamente almeno le corde, oltre a mettere dei soldi di tasca mia. Poi li vedevo arrivare agli allenamenti con l’iPhone in tasca e spaccare racchette che puntualmente i genitori compravano nuove. È capitato che un papà mi abbia detto che sua figlia meritava un investimento: io le mie competenze le metto a disposizione, ma il padre arriva con un auto da 100.000 euro e il tennis alla figlia lo devo regalare io? Siamo il paese delle incongruenze, del potrei ma non voglio. Una volta ho sentito dire a un maestro: Avrò un giocatore forte quando qualcuno farà un mutuo su se stesso. Ha ragione».

Oggi, giusto o sbagliato che sia, già a 12 anni i ragazzi più promettenti d’Italia sono dei professionisti in miniatura, con le esigenze che ne derivano e la certezza che per arrivare bisogna investire, non risparmiare. E pazienza se buona parte di loro professionisti non lo diventeranno mai. Il tennis di vertice fa gola e ci provano in tanti, incuranti delle stime che suggerirebbero tutt’altro. È stato calcolato che attualmente frequentano i tornei internazionali del circuito pro (fra tornei ATP, WTA, Challenger, Futures e ITF) circa 14.500 giocatori, la metà dei quali non raccoglie nemmeno un dollaro di montepremi. E non è che chi incassa qualcosa se la passa meglio: in generale, secondo le stime dell’ITF il 96% (!) dei giocatori sono in passivo.

Ma quanti e quali sono, nel dettaglio, tutti questi costi? Per capirlo ci siamo seduti al tavolo con la madre di un tredicenne che svolge un’attività fortemente votata all’agonismo e ne abbiamo esaminato la lista della spesa. Per allenarsi in una delle migliori accademie del nord Italia servono circa 5.000 euro, ai quali si aggiungono le spese per i tornei, nazionali e internazionali, oltre ai vari appuntamenti di macroarea, quelli che servono alla Federtennis per osservare i giovani e scovare i talenti sui quali provare a lavorare: si possono spendere circa 600 euro a settimana, fra viaggio, vitto e alloggio di ragazzo e maestro, al quale va anche pagata la diaria. Tutto questo per quattro/cinque volte all’anno. Per i tornei internazionali, invece, gli spostamenti aumentano e la cifra cresce di pari passo, fino a toccare quota mille euro a torneo. Fino a una certa età ne giocano pochi anche i migliori prospetti, ma una manciata a stagione servono. Lasciando pure stare i vari tornei tradizionali, quali Open, terza categoria o appuntamenti giovanili vicino a casa (che comunque nell’arco di un anno intero possono incidere), si passa poi all’attrezzatura. Un ragazzino di un determinato livello dispone solitamente di quattro racchette, da cambiare ogni anno, per un totale di circa 500 euro, ai quali ne vanno aggiunti di più per le incordature. A una certa età bisogna stare particolarmente attenti a non sbagliare tipo di corda, pena dei problemi fisici che si possono pagare negli anni successivi, quindi occorre puntare anche sulla qualità. La media è di un’incordatura a settimana, per almeno 15 euro: a fine stagione fanno altri 700 euro.

Capitolo calzature e abbigliamento: un ragazzino non arriverà ai livelli di usura delle scarpe di un Milos Raonic, che sui campi veloci ne utilizza un paio nuovo a ogni incontro, ma giocando con costanza sul cemento ne servono cinque paia all’anno, per altri 500 euro, ai quali se ne possono aggiungere 300 per i plantari su misura (che utilizzano quasi tutti) e altri 300 per l’abbigliamento. Infine, tralasciando le spese che potrebbero subentrare per affittare i campi e chiedere l’aiuto di maestri o sparring nei periodi di chiusura delle varie accademie, ci sono le spese mediche. Uno studio recente ha sfatato il falso mito secondo il quale il tennis facesse male alla schiena, ma resta comunque uno sport piuttosto usurante, e per chi lo pratica sei giorni su sette per 50 settimane all’anno, le sedute dal fisioterapista e dall’osteopata diventano una necessità, anche in un’ottica di prevenzione degli infortuni. A volte ne servono di più, altre volte di meno, ma una media di 80 euro al mese non è esagerata, per un totale che sfiora i mille euro all’anno. Calcolatrice alla mano, la somma delle varie spese da sostenere si assesta intorno ai 16.000 euro. Sedicimila! A stagione. Per un solo ragazzo. E chi di figli che vogliono giocare ad alti livelli ne ha due? O tira la monetina e ne sceglie uno solo, oppure è inevitabile che li indirizzi verso altri sport. «A una certa età, ogni settimana di torneo costa come una vacanza», ha detto qualche mese fa mamma Judy Murray. Lei ha portato due figli al top del ranking mondiale, Andy in singolare e Jamie in doppio. Hanno avuto carriere completamente diverse, ma la strada (e le spese) per arrivare lì sono state le stesse, e non è un caso che poi la madre si sia impegnata per lo sviluppo del tennis di base nella sua Scozia, per far sì che i suoi sacrifici e l’esempio dei suoi figli non morissero fra le pareti di casa.

Un caso interessante nel nostro tennis giovanile, è quello di Nadin Lisi Barbarossa, giovanissima di Fabriano, provincia di Ancona, che lo scorso agosto ha dominato i campionati italiani under 11. Senza entrare nei meriti di una situazione familiare delicata, il risultato è che alle spese del tennis contribuisce solo la madre, che però da sola non è in grado di coprirle interamente. Fortuna che la sua vicenda è stata presa a cuore dal maestro Valerio Moretti che, attivando qualche conoscenza sparsa per l’Italia, riesce a darle una grossa mano. Ha trovato, prima a Maglie e poi a Forlì, due club intenzionati a sostenere le spese di alcuni dei tornei della ragazzina, in cambio di un tesseramento in ottica futura, dovuto alle famose regole sul vivaio per i campionati a squadre. «Senza contare – spiega il diretto interessato – che ai circoli conviene anche vincere i campionati giovanili, perché ricevono un buon contributo. In più, siccome la ragazzina continua a ottenere buoni risultati, stiamo provando a sfruttare questa carta per attirare qualche investitore. Qualcosa dal circolo, qualcosa dalla Federazione, qualcosa da un’azienda che dovrebbe aiutarci a sostenere le spese di qualche torneo, e per ora siamo abbastanza coperti». Messa così sembra facile, ma quanti sono, in Italia, quelli che si impegnano per aiutare un’allieva che dopodomani potrebbe tranquillamente cambiare guida? «L’ho fatto per una sorta di dovere morale. La ragazzina mi ha subito colpito: ha voglia e costanza, è sempre solare, con tanta voglia di migliorare. Ha il sogno di diventare una tennista e mi piangeva il cuore all’idea che dovesse abbandonarlo per questioni economiche. Anche perché nel suo percorso di crescita ho sempre avuto carta bianca. Con altri ragazzi succede di dover mediare spesso con i genitori, invece la madre di Nadin ha sempre appoggiato ogni mia decisione. Questo per un insegnante è un aspetto molto importante e molto stimolante».

Può essere un monito per tanti genitori: invece di vessare gli insegnanti è meglio lasciarli lavorare in pace, che magari qualche aiutino arriva più volentieri. «A Valerio dobbiamo tanto – spiega mamma Liliana – perché sta facendo moltissimo per Nadin. Al momento il futuro non mi spaventa, perché prima di tutto abbiamo il sostegno del maestro, dei club e delle persone che ci aiutano, e anche un contratto per attrezzatura e abbigliamento con Head, che ci garantisce tutto il materiale necessario, oltre ad un contribuito economico. Il modo in cui andremo avanti dipenderà anche dai risultati, ma credo che se Nadin continuerà a dimostrare di essere fra le più forti d’Italia, non sarà impossibile trovare qualche aiuto. Mi piace pensare positivo». Mamma Liliana vive da vicino la realtà dei tornei perché accompagna la figlia in tutti gli appuntamenti: provinciali, regionali, nazionali e internazionali: «Faccio da autista e quando il maestro non c’è, anche da mental coach. Tutto, a parte palleggiare! Una stagione di attività ci costa sui 10.000 euro, che diventano 15.000 con gli allenamenti. Purtroppo, non si può fare solo una delle due. Io però la vivo in maniera serena: come madre farei qualsiasi sacrificio per sostenere mia figlia in questo percorso. È quello che lei vuole».

I tecnici giurano in coro che il campione non si può costruire, ma semplicemente arriva, per caso o volontà divina. Quindi può esserlo chiunque. Magari il Valentino Rossi del tennis italiano si è perso perché la famiglia non aveva la disponibilità economica (e di tempo) adeguata; oppure non ha voluto o potuto investire migliaia di euro senza alcuna garanzia di successo. Oppure è finito, come i più, nel calderone del calcio, dove almeno inizialmente la porta è spalancata per tutti. Si sente dire che è lo sport più popolare, il più facile in cui imbattersi e da praticare, quello in cui almeno inizialmente può trovare spazio chiunque. Tutte verità, ma spesso ci si dimentica che è anche il meno costoso. Con un paio di scarpe ci si gioca per molto tempo, trasferte vere non ce ne sono e l’iscrizione costa qualche centinaio di euro all’anno. E più un ragazzino si fa notare e meno spende, perché le società hanno la possibilità di investire sul settore giovanile: scovano i ragazzi migliori e li fanno crescere, occupandosi di tutto ciò di cui hanno bisogno. Gratis. In ambito economico si tratterebbe a tutti gli effetti di concorrenza sleale, perché nel tennis funziona all’opposto: più un ragazzino promette bene, più la famiglia deve aprire i rubinetti, per fare in modo che continui a farsi notare anche quando arriva l’età in cui si può finalmente accedere ai contributi federali. Le basi per il futuro vanno gettate prima, e se prima non ci si può permettere certi sforzi il treno passa.

Per sforzi non si intendono solo quelli economici, ma anche di tempo e organizzazione dell’attività quotidiana. Lo sanno bene i genitori di Federica Urgesi, marchigiana, classe 2005, lo scorso anno convocata nella nazionale under 12. «Dal punto di vista organizzativo – racconta mamma Paola – è complicato, perché anche la vita familiare va modellata in base agli impegni sportivi. Pure le ferie, per fare un esempio, vanno programmate in base al calendario dei tornei. Il tennis è uno sport individuale e, fatta eccezione per i casi in cui mia figlia si muove con la Federazione, il resto degli spostamenti vanno organizzati dalla famiglia. Anche noi adulti dobbiamo fare delle rinunce, magari saltando un bel viaggio per accompagnarla a un torneo ». Verrebbe da dire che non gliel’ha ordinato il dottore, ma non tutti, prima di iniziare col tennis, sanno bene a cosa si andrà incontro. «Sapevo – continua – che essendo uno sport individuale aveva dei costi più elevati, ma sinceramente non pensavo fossero simili . Io ho giocato a basket e mio marito a pallanuoto, con spese decisamente diverse. Per una stagione si spendono tranquillamente 10.000 euro e anche qualcosa in più». Tutti tirati fuori di tasca propria. «Il nostro circolo per il momento non ha la possibilità di contribuire: quest’anno c’è stato almeno un piccolo sponsor che ha dato a Federica una sorta di borsa di studio, che copre l’accompagnamento ai raduni federali. Siamo anche fortunati a non dover sborsare un euro per attrezzatura e abbigliamento, grazie a Wilson e Lotto, ma tutto il resto è a carico nostro e bisognerà cercare di trovare qualche aiuto». Anche perché prima di pensare di guadagnare un solo euro di montepremi, c’è davanti ancora una manciata d’anni, se tutto andrà per il verso giusto: «Questo onestamente non ci spaventa. Il tennis nella nostra vita è entrato per caso, Federica vuole giocare e noi la assecondiamo con piacere. Non esiste un vero e proprio obiettivo da raggiungere: investiamo su una attività, come nella vita si investe su varie cose, e lo facciamo volentieri. Ci costa dei sacrifici, ma sappiamo anche che questa è la fascia d’età in cui è necessario spingere in quella direzione. Poi chissà: i ragazzi crescono, magari cambiano interessi…».

Mentre la famiglia Urgesi i costi non li poteva immaginare, li conoscevano benissimo i genitori di Giulia Martinelli, classe 2004, finalista ai campionati italiani under 13 e vincitrice lo scorso novembre del circuito Junior Next Gen Italia, sul quale la Federtennis ha spinto moltissimo. Mamma Alessandra infatti, ha in bacheca la targa da maestra nazionale e si è sempre occupata della crescita della figlia. Col collega Alessandro De Luca ha costruito un piccolo team: lui ha portato anche Carlo Alberto Caniato, altro giovane di belle speranze, e insieme li seguono sui campi del Cus Ferrara: «Sapevo – spiega Alessandra – che questa strada sarebbe stata molto impegnativa, soprattutto dal punto di vista economico e delle trasferte. Faccio un esempio: a breve Giulia andrà in Ungheria con la nazionale e se vincono si qualificano per la fase successiva, in Francia. Poi a febbraio andrà in Svezia e a marzo in Portogallo». A casa? Poco. Tanto che la domanda sorge spontanea: con la scuola come si fa? «Giulia va bene e i suoi insegnanti sono contenti. Conoscono la sua situazione e negli anni ho ragionato spesso insieme a loro, perché le assenze sono all’ordine del giorno. Lo scorso anno Giulia ne ha fatte una cinquantina». Visto che secondo il Ministero dell’Istruzione il numero dei giorni di scuola si deve assestare intorno ai 200, vuol dire averne saltato uno su quattro: «Fortuna che gli impegni con la nazionale o la convocazione a determinati raduni, per legge sono considerati come assenze giustificate».

Insomma, un aiuto per la scuola si trova, ma per i costi? «Qualcuno riesce a trovare degli sponsor, ma sono più amici che reali investitori. Da noi, da quando la Spal è tornata in Serie A (di calcio, dopo cinquant’anni, n.d.r.), chi ha la possibilità di investire punta su quello. Abbiamo provato anche a chiedere una mano al Comune, ma di fronte a una squadra di calcio di Serie A e a una di basket di Serie A2, per una singola ragazzina è già tanto riuscire ad avere una risposta. Ci aiuta il fatto di non dover sostenere la spesa per gli allenamenti: l’insegnante sono io e ho un accordo con la struttura che mi permette di non pagare i campi». In realtà non è proprio così semplice, visto che quando allena Giulia deve comunque pagare un maestro che la sostituisca nel club dove lavora, ma il risparmio c’è. «Per ora abbiamo speso poco, perché mia figlia non ha sostenuto chissà quale attività internazionale, ma nel tennis bisogna prendere la valigia e fare esperienza. Quindi diecimila euro all’anno se ne vanno tranquillamente e andando avanti i costi aumenteranno parecchio. Se mi spaventano? Certo. Per questo qualche soluzione andrà trovata, altrimenti c’è il rischio di dover svolgere un’attività ridotta. Ci auguriamo che Giulia possa entrare in uno dei CTP, così le spese passano quasi tutte a carico della Federazione».

CTP è l’acronimo di Centri Tecnici Periferici, che insieme al Centro Federale di Tirrenia sono la punta di diamante del cosiddetto Sistema Italia, lanciato negli ultimi anni dalla FIT per provare a correggere e migliorare il percorso preso in passato. Per i ragazzini dai 9 agli 11 anni, ci sono i Centri di Aggregazione Provinciale (CAP), dove vengono organizzati raduni su scala mensile; per i giovani dai 12 ai 14 anni, ci sono i ventisei Centri Periferici di Allenamento (CPA), dove nel fine settimana i migliori ragazzini della zona si trovano per allenarsi fra di loro. Infine, per la fascia di età dai 14 ai 17 anni, ci sono appunto i Centri Tecnici Periferici. Quattro piccole Tirrenia situate in Veneto (Vicenza), Lombardia (Palazzolo sull’Oglio), Umbria (Foligno) e Puglia (Bari), dove gli atleti selezionati vivono in pianta stabile per tre anni, sotto le direttive di un tecnico federale. Si occupa di tutto la FIT: spese della struttura, coach, vitto, alloggio, trasferte, attrezzatura e quant’altro. Le garanzie per il futuro restano le stesse, ma almeno le famiglie riescono a tirare il fiato. Al momento i ragazzi interessati dal progetto sono circa una ventina, ma da tempo si vocifera della possibilità di raddoppiare le strutture e la scelta di tornare a utilizzare anche la vecchia struttura federale di Formia sembra andare in quella direzione.

«L’Italia è lunga, quindi la nascita di altri CTP sarebbe sicuramente una buona notizia perché darebbe a tanti ragazzi delle possibilità che altrimenti è difficile ottenere» dice Alessio Di Mauro, numero 68 del mondo nel 2007 e oggi maestro a Catania. Lui la strada la conosce benissimo ed è uno dei pochi ad avercela fatta, visto che i tanti soldi investiti ha trovato il modo di recuperarli. Ma per farcela ha dovuto arrivare nei top 100 e giocare una finale ATP. «Io ho avuto la fortuna di recuperare buona parte delle spese e poi di guadagnare, ma la maggior parte dei ragazzi non riesce a ripagare gli investimenti fatti, alcuni nemmeno per il 10%. Bisognerebbe trovare dei punti di appoggio per i più bravi, dove non far pagare proprio, ma mi rendo conto che è molto complicato». Altro quesito da porsi: nella costruzione di un tennista, la zona di provenienza incide? Forse, ma non nei termini che si potrebbe immaginare. Di Mauro è di Siracusa, la Sicilia non è la regione più florida in termini di giocatori prodotti ma – limitandoci al settore maschile – due top 100 ce li ha regalati: lo stesso Di Mauro e Marco Cecchinato. Vuol dire che nell’Era Open ben dodici regioni hanno fatto peggio, compresa la Lombardia che, pur con un bacino di giocatori notevolmente superiore, ha portato un solo atleta nei primi 100, Simone Colombo, numero 60 ATP negli anni 80. «Un tempo avrei detto che un ragazzo siciliano partiva a handicap – continua Di Mauro – ma tanti circoli hanno investito e altri lo stanno facendo adesso per permettere ai nostri giovani di trovare le strutture adeguate anche al Sud. Ora spetta a noi maestri impegnarci per creare delle condizioni migliori, in modo che i ragazzi più bravi possano allenarsi qui, senza essere costretti a spostarsi lontano da casa».

Quello della distanza dalla famiglia è un altro grande punto interrogativo. La filosofia di pensiero attuale è che allontanare i ragazzi dal nucleo familiare già in tenera età possa diventare controproducente, ma in tanti casi si può anche rivelare una mossa azzeccata. Se un guru come Ion Tiriac è arrivato a dire che il tennista ideale dovrebbe nascere orfano, vuol dire che il problema è soggettivo, perché dipende dall’attitudine della famiglia. Visto l’enorme ammontare di spese da sostenere, infatti, in certi casi si può creare un pericoloso circolo vizioso: il genitore vede nel figlio un investimento, quindi fa il possibile perché vada a buon fine. Ma così facendo le sconfitte, che nella costruzione di una carriera rivestono una certa importanza, assumono un peso eccessivo e il rapporto padre-figlio finisce per sfociare in quelle tante situazioni spiacevoli che nei tornei under sono una brutta consuetudine. La famiglia può quindi diventare un limite e staccarsi da casa non è una scelta sbagliata a priori. Il problema è di nuovo nei costi, che lieviterebbero ulteriormente.

Torna in mente l’esempio di Mauro, un affezionato lettore che qualche mese fa ci aveva scritto una lettera, pubblicata nel fascicolo di aprile. Faceva un parallelo fra la storia di Luca Nardi, classe 2003, il nostro ragazzo più promettente che grazie alle risorse di famiglia può svolgere un’attività da professionista, e quella di suo figlio, che a 16 anni gioca tre volte alla settimana, con classifica di 3.2. Si chiedeva: se negli anni mio figlio avesse potuto fare lo stesso numero di ore di Nardi, con la stessa qualità di lezioni ricevute, sarebbe riuscito ad arrivare allo stesso livello? Quanti sono in Italia i ragazzini che avrebbero dei numeri, ma per scarsa disponibilità economica e di tempo da parte dei genitori non hanno la chance di raggiungere i loro limiti? Il dubbio su come sarebbe andata se lo porterà dietro per sempre: «Più soldi – dice oggi – vuol dire potersi affidare a uno staff migliore, più ore di lezioni individuali, più tornei in Italia, in Europa, nel mondo, più esperienza, più possibilità di miglioramento, e così via. A mio giudizio, il denaro è il primo elemento discriminante per indirizzare il futuro tennistico di un ragazzo promettente». Parole forti, ma difficili da smentire. Ci sarà qualche eccezione che conferma la regola, ma si tratta appunto di eccezioni. Oggi, per (provare a) diventare professionisti di tennis, oltre alle qualità tecniche, fisiche e mentali, alle ambizioni e allo spirito di sacrificio necessario, conta il denaro.

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