Alla vigilia delle ATP Finals avevano chiesto ad Alexander Zverev quando si sarebbe vista l'influenza di Ivan Lendl nel suo gioco. “Non subito, ma spero all'inizio dell'anno prossimo – aveva detto, salvo poi correggere il tiro – ma forse qualcosa già in questa settimana”. È andata proprio così. Durante il 6-4 6-3 rifilato a Djokovic, le telecamere hanno spesso scrutato il volto impassibile di Lendl, che pure nell'ultimo mese non aveva trascorso molto tempo con lui, tra un piccolo intervento chirurgico al polso e impegni di vario genere. Tuttavia, sembra proprio che Sascha stia imparando la lezione. Qualche giorno prima, Djokovic lo aveva dominato dalla prima all'ultima palla. Domenica abbiamo assistito a un match totalmente diverso, in cui ha mischiato attacco e una gran difesa, supportato da un servizio molto puntuale. Col suo occhio attento, Lendl è in grado di individuare quei piccoli dettagli che fanno la differenza. Nel 2012, Andy Murray (che seguiva da qualche mese) scoppiò in lacrime dopo aver perso la finale di Wimbledon contro Federer. Qualche minuto dopo, Lendl gli disse che non si sarebbe mai più sentito così male sul campo da tennis. Un mese dopo avrebbe vinto l'oro olimpico (in finale su Federer), due mesi dopo lo Us Open, dodici mesi dopo Wimbledon. Nel secondo step insieme, avrebbero aggiunto un secondo Wimbledon, un altro oro olimpico e il numero 1 ATP. Con il suo carattere ispido, Lendl non socializza più di tanto con il resto del team. Niente cene, niente conviviali. Però sa quando deve essere duro e quando è il momento di mettere una mano sulla spalla del giocatore. Lo ha fatto anche con Zverev dopo la dura sconfitta allo Us Open, per mano di Philipp Kohlschreiber. Si è ripetuto sabato, quando il suo allievo aveva dovuto sopportare i fischi (ingiusti) del pubblico per l'episodio del punto rigiocato dopo la pallina persa da un raccattapalle.