Se Karolina Pliskova guarda dall’alto verso il basso tutte le colleghe, da Simona Halep staccata di soli cinque punti all’israeliana Talya Zandberg, ultima giocatrice della classifica WTA, i motivi principali sono due. Il primo è la continuità, collante di una stagione non eccellente nei grandi tornei ma molto lineare, mentre
il secondo è la capacità di vincere un sacco di partite pur non giocando il suo miglior tennis. Da gennaio in poi le è capitato spesso, ed è successo di nuovo al secondo turno dello Us Open contro Nicole Gibbs, 24enne dell’Ohio che dopo aver toccato le prime 70 del ranking WTA è scesa al numero 127 a causa di qualche noia fisica, trovandosi costretta a passare dalle qualificazioni. L’ha fatto, all’esordio nel main draw ha vinto un match da montagne russe contro la paraguaiana Veronica Cepede Royg, e poi ha accarezzato l’impresa per un set, mettendo paura sul serio alla numero uno,
la stessa che due anni e mezzo fa a Sydney l’aveva disintegrata di pallate non lasciandole neanche un game. In Australia era emersa tutta la differenza fisica fra una giocatrice (la Pliskova) simbolo del tennis di oggi, alta, algida e potente, e la classica ragazza normale, con un fisico normale e un tennis normale, capace di farsi apprezzare soprattutto fuori dal campo, per i racconti della vita di una giocatrice di seconda fascia che appaiono di tanto in tanto
nel suo blog “My Tennis Life”, condiviso con Sam Groth sul sito di Tennis Channel. Stavolta, invece, la gigante è stata lei:
il tennis della Pliskova non funzionava, il palcoscenico le ha dato la carica per tentare la vendetta da copertina e la spia rossa dell’upset alert si è accesa già dopo cinque game, quattro dei quali finiti nella cassaforte griffata “NG”.