Il tennis è giù, in fondo: si costeggia Cascina Bollate, cioè la serra-vivaio, poi il piccolo maneggio mantenuto dal sciur Villa, un benefattore della zona, e un cortile di cemento recintato che qualcuno chiama, sempre con quel misto di sarcasmo e autoironia che gli ospiti di un carcere sviluppano piuttosto alla svelta, il “Bollate Beach Resort”. Ci saranno trentacinque gradi, il sole picchia da far male ma un ragazzo ha il coraggio di rosolarsi, placido, con una coperta di lana sotto la schiena che dev’essere come carta vetrata passata al forno. Un altro, lì accanto, si sta gonfiando i deltoidi col bilanciere: ma non fa troppo caldo, per i pesi? «No, anzi, più soffri meglio è, così la sera sei sfinito e dormi», dice. Gli è arrivato “il definitivo”, una condanna passata in giudicato, e per i prossimi tre anni abiterà qui. L’amministrazione illuminata di questa casa di reclusione è nota per essere una tra quelle – e sono poche – che rispettano per intero il dettato costituzionale. Un condannato, per quanto spaventoso possa essere ciò che ha commesso, non è un reato ambulante ma una persona, che deve pagare ed essere recuperata: trattare con umanità, offrire un mestiere e un’ idea di riscatto è anche un esercizio di protezione sociale, perché abbatte la recidiva. È un discorso complesso, che cozza contro il legittimo dolore di chi, là fuori, ha perso tutto come vittima di vicende tragiche; chi parla di rieducazione, generalmente, viene travolto dal populismo penale del «buttiamo via la chiave», di chi vorrebbe reintrodurre la pena di morte, dei discorsi alla «mio figlio è disoccupato e lo Stato tutela i criminali». E sembrerebbe, soprattutto, una questione aliena al serve&volley. Invece no: perché il tennis in carcere è un collante, aiuta ad applicare la cultura del rispetto, tiene in moto mente e corpo. In qualche caso, addirittura, salva: «Per me è una ragione di vita», afferma Davide senza esitare. Sembra una frase buttata lì, ma un conto è se la dice il tuo maestro al circolo, un altro se la fa sua un carcerato con “il pieno”, altro vocabolo quasi beffardo che, da queste parti, indica l’ergastolo. Davide indossa la fascetta nera col baffo, arrotola l’overgrip in tinta sulla Wilson bianca, un regalo della sorella Barbara per il compleanno del 2015: per chi sta fuori, un dettaglio dappoco. Per chi vive il tempo dilatato di una carcerazione con fine pena mai, il segno tangibile di un sostegno che vale la differenza tra vivere e lasciarsi andare. Parla più volentieri della finale del torneo Uisp dello scorso anno, vinta 6-3 al terzo contro l’ispettore Liverani, che non della «tragedia, quel momento di buio» che lo ha portato qui, dieci anni fa. Ma non si nasconde. Nel suo passato si specchia una qualunque delle nostre vite: il lavoro, gli amici, le scorribande in moto, le vacanze in Spagna, un amore contorto con una fidanzata problematica che andò pure in tivù a raccontare la sua versione. È l’unico ad aver frequentato in gioventù una scuola tennis e si vede: gioca con l’impostazione corretta, quella che ti danno i maestri da ragazzino. «Per me il tennis è stato un miracolo. A Torino, dove avevo chiesto di essere trasferito per studiare scienze politiche, noi detenuti potevamo praticare solo il goback, una specie di minitennis con palette di legno, dentro una palestra. La mia ultima racchetta era una Head del 1998 ed ero rimasto indietro su tutto, non avevo neanche l’antivibrazioni, non sapevo cosa fosse il bilanciamento del telaio... dopo un bel pezzo che ero qui, a Bollate, mi sono affacciato alla finestra e ho visto due ragazzi che giocavano a tennis. Mi si è aperto un mondo». Un mondo che la Uisp ha reso possibile grazie a Renata Ferraroni, senatrice dell’Unione Italiana Sport per Tutti e responsabile delle attività in carcere per la Lombardia, con l’appoggio della dirigenza del carcere. Che vuol dire tutto, perché in altri istituti il tennis non viene praticato: altre amministrazioni lo ritengono pericoloso, sia per l’attrezzo necessario al gioco, sia perché le palline potrebbero essere utilizzate per “passare” ai detenuti sostanze stupefacenti o altre merci vietate. Qui tutti i tennisti sono tesserati e Davide non smette di pensare a iniziative, a nuovi progetti; anche se talora glieli bocciano, come lo studio grafico di un logo per l’abbigliamento dei “soci”. Lui incassa e si fa venire un’altra idea: «Mi piacerebbe frequentare un corso maestri a settembre», e ti mostra il foglio tenuto con cura maniacale nella cartellina, forse un retaggio del suo mestiere del prima. È il programma di una giornata di formazione Uisp con il coach Giacomo Paleni, ma iniziare a chiedere autorizzazioni con mesi di anticipo può non bastare: bisogna che qualcuno prenda in carico la richiesta, che il programma finisca sulla scrivania del magistrato, che ritorni coi timbri, le firme, superi gli ostacoli di ferie, assenze, sviste e rallentamenti e, forse, il corso si farà. Uno slalom gigante. Come quello, vinto per testardaggine dopo lunghissime attese, per ottenere il certificato medico di pratica sportiva. Davide è sufficientemente consapevole per non lamentarsi, mai: «Inutile girarci intorno, tutti noi chiusi qui dentro sappiamo perché siamo qui. Bisogna accettare la realtà, semmai darsi da fare per conquistarsi anche le piccole cose, e abituarsi a buttare giù rifiuti e fallimenti. Ci ho messo tanto tempo ma, alla fine, ho deciso di provarci, a vivere: di perdonarmi, prima di tutto, sperando che un giorno gli altri possano perdonare me».