di Cristian Sonzogni - foto getty Images, Frequenzagrafica
PARTE 1
Paolo Lorenzi non è solo un ragazzo che ha saputo costruirsi il suo sogno. Paolo Lorenzi è un esempio. Un esempio di come, malgrado una carriera incanalata da anni su certi binari, si debba sempre sperare di poter cambiare qualcosa, fino a quando quel qualcosa non lo si ottiene davvero. E un esempio di come tutto sommato, anche una volta raggiunti traguardi importanti, si possa mantenere la stessa umiltà di sempre, la stessa voglia di sacrificarsi. Anche a contatto con il mondo dorato dei primi cento al mondo.
- Dal 2002 al 2008, sette anni navigando tra la posizione numero 300 e la numero 160. Poi la svolta, una stagione magica e ora i top 100 Atp. Tutto in dodici mesi. La domanda è ovvia, cosa è cambiato?
“Penso che, a parte i miei meriti, io debba dire grazie al mio staff. Al coach Claudio Galoppini con cui mi alleno a Livorno dall’ottobre del 2008, e ancora a Riccardo Ferretti e a Stefano Giovannini. Ora vengo seguito passo passo e sento di avere un team completamente a mia disposizione. Forse, il rimpianto, è quello di non averlo saputo costruire prima. Per quanto mi riguarda, invece, la grossa differenza è la continuità di rendimento. Non c’è molta distanza, nel gioco, tra il numero 200 e il numero 80 del mondo. Ma il numero 80 fa risultati tutto l’anno, anche quando non si esprime al massimo. Io sto facendo tutto un po’ meglio di qualche tempo fa, soprattutto il servizio. E continuo a lavorare per limare i miei difetti”.
- Superfici?
“Lo dico sottovoce, perché se qualcuno mi sente... A me piace giocare sull’erba... Sai qual è il problema? Che io credo pure di giocare bene sui prati, ma probabilmente ho un’idea distorta al riguardo”.
- Restando in tema di superfici, nasci giocatore da terra.
“E lo sono tuttora, per le mie caratteristiche tecniche. Anche se posso essere competitivo pure sul cemento. Solo indoor soffro ancora troppo”.