Lo scenario è surreale. Se Novak Djokovic dovesse vincere lo Us Open, si metterebbe in ottima posizione per chiudere l'anno al numero 1 ATP. Ripensando alle disastrose apparizioni a Indian Wells e Miami, frutto di una viva confusione interiore e i postumi dell'intervento al gomito, era difficile immaginare un ritorno ai massimi livelli. Riuscirci così rapidamente, poi, sembrava fuori discussione. Dovesse battere Juan Martin Del Potro (sconfitto 14 volte in 18 precedenti) si porterebbe al numero 2 dell'ATP Race, a un migliaio di punti dal leader Rafael Nadal. Mancherebbero un paio di mesi e il calendario favorisce Nole, senza dimenticare il problema al ginocchio di Nadal. Dovesse azzeccare il sorpasso, sarebbe una delle imprese più clamorose nella storia dell'ATP, forse anche dell'Era Open. Lo scorso 21 maggio, la classifica mondiale lo aveva retrocesso fino al numero 22, peggiore classifica negli ultimi dodici anni. Poi è successo qualcosa e Novak, partita dopo partita, ha ripreso comandare come in passato. Lo ha fatto anche nella notte dell'Arthur Ashe, in un clima finalmente adeguato, lasciando nove giochi a un rassegnato Kei Nishikori. Lo aveva quasi sempre battuto, anche se “probabilmente ho perso il match più importante contro di lui” diceva alla vigilia, alludendo alla semifinale del 2014. Ma fu un'edizione strana, dai contorni irripetibili. I due giocano un tennis simile: per questo, difficilmente i loro match offrono grande spettacolo. Il problema, per il giapponese, è che Djokovic fa tutto un po' meglio. La differenza si è ingigantita allo Us Open, perché il giapponese ha sofferto da matti al servizio, raccogliendo appena il 60% dei punti con la prima palla e concedendo per 17 palle break. Nole ne ha trasformate quattro e tanto è bastato, mentre Kei ne ha avute solo un paio, entrambe annullate.