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LES PETITS AS

Fame, all’inglese, a indicare gloria, popolarità, successo. Fame, all’italiana, perché senza quella voglia è impossibile sfondare nel tennis. Siamo andati a Tarbes dove le migliori promesse del mondo si radunano al torneo Les Petits As. Giovani che vivono lo stesso sogno, accompagnati da genitori ambiziosi, manager, sponsor e talent scout, tutti a caccia dei futuri fuoriclasse
I vincitori del torneo Les Petits As di Tarbes, LindaFruhvirtova e Vojtech Petr
Tarbes è un’anonima cittadina francese a venti chilometri da Lourdes, e vien troppo facile pensare che sia servito un miracolo perché il suo vecchio Parc des Expositions ospiti Les Petits As, il Campionato del Mondo under 14. In tanti son passati di qui: Rafael Nadal, Richard Gasquet e Michael Chang hanno vinto, Andy Murray ha perso in finale, Tomas Berdych in semi, Novak Djokovic nei quarti, Roger Federer addirittura negli ottavi. In campo femminile, l’albo d’oro cita Anke Huber, Jelena Ostapenko, Kim Clijsters. Quando la nostra Adriana Serra Zanetti ricorda di esserci passata, racconta: «Un torneo bellissimo: persi da una ragazzina svizzera». Era Martina Hingis, l’unica, insieme a Timea Bacsinszky e Carlos Boluda (che doveva essere il nuovo Nadal e ora arranca in piccoli tornei), ad aver trionfato due volte. L’Italia vanta due titoli, quello di Samuele Ramazzotti nel 2013 e di Luca Nardi nel 2017. Quest’anno c’erano un paio di ragazzi che hanno perso nelle qualificazioni, Filippo Mazzola e Giacomo Nosei, e una sola giocatrice nel main draw, la 13enne Anna Paradisi, cresciuta al Circolo Tennis Firenze e ora trasferitasi a Roma all’accademia dei fratelli Piccari. In Italia non l’avvicina nessuna, qui ha raccolto due game contro la belga Sofia Costoulas, protégé di Justine Henin, quest’ultima presente per la prima volta a Tarbes da quel lontano 1995, quando perse in finale da Mirjana Lucic. All’epoca portava gli occhialetti, un taglio da maschietto ed era esile come poche. «Quella finale è un ricordo molto forte: mia madre stava già male ma, arrivata in semifinale, venne a vedermi. Quel match perso contro la Lucic è l’ultimo che mi ha visto giocare. È morta due mesi dopo. A questi ragazzini dico di avere pazienza. Bisogna lavorare duro ma tante cose arrivano col tempo. Sono giovani che si stanno costruendo un futuro perché sono certa che la maggior parte di loro vuole diventare un professionista. Il risultato ora conta poco, serve imparare a gestire la pressione di giocare davanti a tanta gente, con le aspettative di coach, sponsor e genitori. Gestire tutto ciò è difficile, ma il tennis è un mestiere fatto di sfide. Quando si sceglie questa strada, bisogna aver chiaro che potrebbe essere una vita magnifica ma che sicuramente sarà ricca di sacrifici. Però, sia chiaro, io rifarei la stessa scelta, anche senza sapere che sarei diventata la numero uno del mondo».
Il nostro Cicerone è Fabio Della Vida, figlio di Carlo, il più grande organizzatore di eventi di tennis in Italia. In passato ha seguito fuoriclasse come Goran Ivanisevic, Petr Korda, Kim Clijsters e Daniela Hantuchova, e da due anni ricopre il ruolo di Client Recruiter per l’agenzia StarWing Sports di Lawrence Frankopan, un milionario che ha sposato una milionaria e che, per sua stessa ammissione, non capisce granché di tennis: «Però ha conoscenze pazzesche e trova delle risorse impensabili per altri» dice Della Vida. Per esempio, Kyle Edmund, che pure non è un giocatore che buca lo schermo, ha contratti con Jaguar, Rolex, Evian, British Airways: in proporzione ai risultati e all’appeal, è il giocatore meglio pagato dagli sponsor. Il Recruiter ha il compito di far firmare ai giovani atleti (e ai loro genitori) il mandato per gestirli dal punto di vista manageriale. Un talent scout che deve saper far di conti: «Non c’è una ricetta segreta e non basta valutare le qualità tecniche, che sono le più evidenti. Bisogna conoscere tutto ciò che gira intorno al ragazzo. Personalmente non firmo nessuno senza aver conosciuto genitori, famiglia e amici: ti raccontano tanto di una persona e puoi capire se ha davvero dentro ciò che serve per diventare un fuoriclasse».

A Tarbes, è pieno di manager che cercano di arrivare primi sulla preda, in una gara contro il tempo. Tra questi, Yulia Beygelzimer, ucraina, 35 anni, un passato da numero 83 WTA e un match indimenticabile a Roland Garros contro Jennifer Capriati: perse dopo essere stata avanti tre a zero nel set decisivo. «Seguo un paio di giocatrici professioniste ma è più semplice. Certo, devi essere disponibile 24 ore su 24, sette giorni su sette, ma non devi istruire i genitori, gestire le ansie giovanili, aiutarli a crearsi un percorso sano. E poi con i ragazzini avverti tanta responsabilità: a questa età devi suggerire decisioni che possono influenzare la loro vita, ma non hai la sfera magica per prevedere quale sarà il loro futuro. Puoi solo cercare di essere onesta e sperare che tutto fili liscio». La scuola è un aspetto fondamentale: tanti dicono che fino ai 18 anni non bisognerebbe smettere di studiare seriamente, ma la sensazione è che il suggerimento non sia sempre seguito, tra lezioni più o meno private e corsi via Internet. Anche se ci sono delle eccezioni: «Frequento la scuola pubblica - dice Vojtech Petr, il Piccolo Asso di quest’anno -. Però sia chiaro, io voglio diventare un giocatore professionista: il tennis mi piace dieci, la scuola... diciamo... due, a essere generosi».
Tra i tanti coach c’è anche Jean-René Lisnard, 39 anni, un passato da numero 84 ATP e la fortuna di aver rappresentato una delle federazioni più piccole e più ricche del mondo, quella del Principato di Monaco. Ora segue la Costoulas, 14 anni ad aprile, che a Tarbes ha fatto finale, mostrando progressi importanti, stando a chi la segue da tempo. Aiutata dalla fondazione della Henin, è già mentalmente proiettata alla carriera pro, al punto che vien da chiedersi a che età arriva il punto di non-ritorno, il momento in cui gli studi vengono accantonati e la giornata è scandita solo da campo, palestra, fisioterapia e bagni ghiacciati per recuperare dallo sforzo. Quando il giorno dopo assomiglia stramaledettamente a quello prima. Lisnard è categorico: «La scelta è già stata fatta! A questo livello, devi comportarti da professionista e tutto deve essere indirizzato verso quell’obiettivo. Non c’è spazio per troppe distrazioni. Dopotutto, le migliori tra queste ragazzine, fra due o tre anni staranno giocando nei tornei pro, magari negli Slam». Chi ne è convinta è Linda Fruhvirtova, che ha vinto il torneo cedendo solo quindici game, mai successo prima. Il corpo è già ricoperto di tape, conseguenza di allenamenti non proprio morbidi. La mamma è una donna sveglia, capace di avviare un business nel settore enologico (in sostanza riunisce milionari intorno a un tavolo per degustazioni di bottiglie di altissimo livello), lei mostra l’apparecchio ai denti e una vocina fioca, che però sentenzia: «Voglio diventare la numero uno del mondo, cos’altro?». È seguita passo passo dagli agenti di Mouratoglou. Infatti, mi basta parlarci tre minuti perché mi arrivi immediatamente un messaggio WhatsApp del loro responsabile: «Ehi, so che hai parlato con Linda, cool!».

Perché, già a questa età, è necessario avere al fianco uno staff completo, come spiega Della Vida: «Credo che questi ragazzi diventino dei mini professionisti fin troppo presto, col rischio che si brucino. In questo gli americani sono più sereni e infatti sono convinto che a breve troveranno tanti buoni giocatori. Però chiaramente è anche fondamentale che siano seguiti dalle persone giuste, in grado di creare un percorso che punta a vincere domani, non oggi. Purtroppo si è sempre un po’ schiavi del risultato ma, a questa età, è più importante vedere quanto stanno migliorando, sotto tutti gli aspetti. Prendi la Costoulas: un tempo pallettava, adesso è cresciuta tantissimo e tira davvero forte. Per questo la figura del coach è importante. E, attenzione, un ragazzino si accorge subito se l’allenatore non ci mette l’anima! Chiaramente lo stesso vale all’opposto: io seguo Marc Majdandzic, un tedeschino che gioca un gran tennis ma spesso vuole allenarsi solo come gli piace. Se un ragazzino non capisce i sacrifici che bisogna fare per arrivare in alto, meglio che smetta subito».
Un aspetto fondamentale è la presenza dei genitori, spesso più ambiziosi dei figli stessi. Luka Kutanjak, 39 anni di Zagabria ed esperienze con Borna Coric e Thomas Berdych, diventa filosofo, quando deve trattare l’argomento: «I genitori sono come le donne: non può viverci senza, non puoi viverci con. Bisogna saperli gestire fino a trovare il giusto equilibrio. Perché sia chiaro, senza i loro sforzi e il loro appoggio, una carriera nemmeno comincia». Sono loro che decidono impegni e trasferte e, fino almeno ai diciotto anni, firmano i contratti. Perché l’aspetto economico è prioritario: il tennis è uno sport costoso e un’attività di questo livello costa almeno 25mila euro all’anno. Per qualche anno. Per sopravvivere, ci sono varie strategie. Primariamente, acchiappare gli sponsor a caccia del fenomeno. A Tarbes erano in tanti: Nike, Head, Wilson, Babolat, Yonex. Il più attivo è il brand del baffo; la policy aziendale impedisce agli scout di rilasciare interviste ma la strategia appare chiara: cercare la qualità nella quantità. E allora ecco fiori di giocatori ricevere borsoni stracolmi di scarpe e abbigliamento e, nella tasca, un incentivo che può arrivare a 25-30 mila euro. Se poi provieni dai mercati più importanti, come quello americano, si sale ulteriormente, fino anche a raddoppiare quelle cifre. Diverso invece quando si parla di attrezzatura: in quel caso, l’obiettivo è prenderli prima possibile, anche a 10-11 anni perché, una volta assuefatti all’attrezzo, difficilmente cambieranno. Come conferma Quentin Rayniere di Wilson: «La nostra policy è di evitare di pagare ragazzini così giovani, anche se non tutti i brand seguono questa linea. L’importante è aiutarli a livello tecnico, trovare il prodotto giusto, evitando che si creino problematiche soprattutto fisiche. Normalmente ricevono sei telai e facciamo attenzione anche a come li trattano. Se ne spaccano uno, non è automatico che ne arrivi un altro».
L’alternativa è che sia un investitore privato o la stessa agenzia di management a mettere i soldi. L’accordo è simile a quelli che si fanno a Wall Street, solo che là sono azioni di società quotate, qui ragazzini che cercano la strada verso il successo. L’investimento viene ripagato con una percentuale sui futuri guadagni da professionista. Se non sfonda, i soldi vanno persi. In caso contrario, si può arrivare anche a raddoppiare il prestito, oltre che a firmarli come manager personale e quindi prendersi una percentuale sui contratti di sponsorizzazione. Un’operazione a forte rischio di fallimento ma con precedenti importanti come Marat Safin o Ana Ivanovic. In Italia, questa pratica è poco diffusa: «Ci sarebbero investitori disposti a correre il rischio, anche solo per la volontà di aiutare un ragazzino a realizzare il proprio sogno - dice Della Vida - ma nel nostro paese, se provi a fare una roba del genere, il Fisco ti viene a bussarti la sera stessa, pensando a chissà cosa». «E comunque – aggiunge la Beygelzimer – bisogna fare un po’ di attenzione perché chi investe su un ragazzo, è difficile che non voglia interferire sulle scelte, la programmazione, eccetera. Però talvolta sono l’unica strada percorribile». Oppure sei Rashed Nawaf, nato in Qatar, paese dove il detto Money is not an issue è una regola: «Se sono di famiglia ricca? Tutti in Qatar siamo ricchi! Se sono figlio di uno sceicco? Ma quasi tutti in Qatar siamo sceicchi!». Come non bastasse, Nashed è sostenuto da Nasser Al-Khelaifi, Presidente della federazione qatariota ma soprattutto del PSG. E stato un buon tennista, ha assaggiato il mondo dei pro, e spera che Nashed possa diventare un buon giocatore: «Il tennis è divertente, mi piace giocare qualche tricky shot ma solo contro i miei coetanei. Se il livello cresce, devo essere più aggressivo. Però il tennis è anche show, gioco perché mi diverto e voglio vincere. Vivo all’accademia di Mouratoglou, siamo seguiti benissimo, però mi piacciono anche altre cose. Ci sono giocatori che mi sembrano fissati solo col tennis». Forse perché è il lasciapassare per chi non possiede i petroldollari, anche se il professionismo non è l’unica strada, come ha recentemente spiegato Nick Bollettieri, lasciando attoniti i ragazzi che ascoltavano: «Ascoltate, nella mia accademia ci sono centinaia di ragazzini che vogliono diventare dei campioni; se ci riuscirà anche uno solo, sarà stato un successo. Però il tennis vi terrà fuori dai guai, vi permetterà di frequentare una buona università, vi offrirà comunque qualche buona opportunità». E quando Della Vida gli ha fatto notare che a 87 anni e a fine carriera, stava diventando saggio, gli è tornato indietro un boomerang: «Primo, sono 88; secondo, sono ancora al principio della mia carriera». Ecco, coach Bollettieri è stato un tennista mediocre, ma non è un caso abbia cresciuto dei fuoriclasse.

Quest’anno, i Piccoli Assi sono stati Vojtech Petr e Linda Fruhvirtova, entrambi dalla Repubblica Ceca, secondo la Beygelzimer «la nazione ideale dove crescere tennisticamente: hanno ottimo coach e un giusto equilibrio tra ciò che ti viene offerto e quello che ti devi conquistare». Mentre si destreggiano tra photo shooting e interviste, il grande schermo nella hall mostra un dritto in corsa di Rafael Nadal sulla Rod Laver Arena e il pensiero corre a quando vinse questo torneo nel 2000. «Siamo fornitori ufficiali di campioni dal 1983», dicono orgogliosi da queste parti. Avanti il prossimo.
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