NUOVE SENSAZIONI
Però non era ancora il momento giusto e solo adesso, un anno e mezzo e qualche giro del mondo più tardi, Thomas si racconta con più agio, dalla posizione numero 70, dietro i soli Fognini e Lorenzi, terzo italiano del pianeta nel nostro sport. A rigore, una situazione in cui la convocazione in Coppa Davis diventa argomento di attualità, per il prossimo impegno di inizio febbraio contro il Giappone, in un’area del mondo che gli è familiare e su un terreno che non potrà che essere cemento: «Non lo nego: per me è un discorso che diventa interessante, perché ho una classifica che mi permette di pensare alla convocazione. Però sono abituato a non dare niente per scontato, sia perché ci sono giocatori davanti a me, sia perché preferisco non aspettarmi niente. Come le wild card: se arrivano bene, ma non dipendono da me. Quando ero più giovane ne ricevevo parecchie e poi meno, anche per la scelta di allenarmi per conto mio. Ma non credo che ci sia nulla di dovuto». Non per lui, non più almeno, dai tempi in cui si era guadagnato attenzione con i successi juniores – campione al Roland Garros in doppio, numero 6 del mondo nel 2007 – e un sostegno che venne meno dai 21 anni in avanti, cioè quando serviva di più e dovette organizzarsi per continuare da solo, senza sostegni se non i suoi redditi da vittoria, l’avventura nel tennis. «Comunque ho sempre avuto il dubbio di non riuscirci. L’autostima e la consapevolezza di dire che “appartengo ai primi cento” non ce l’ho mai avuta. Semmai, adesso, ho qualche sicurezza in più sul mio gioco, perché finalmente sono entrato in tutti gli Slam in tabellone». E non da turista con licenza di viaggiare in prima classe: «Fino a poco tempo fa, mi dicevo che per fortuna i primi dieci… sono solo dieci. Fino a Wimbledon di quest’estate, direi. Entravo in campo pensando di essere uno che poteva farcela con tanti, ma non con tutti. Poi ho trovato Sam Querrey: io (un metro e 73, nda), sull'erba, contro uno (di due metri, 20 ace e 85% di turni di battuta tenuti a match, nda) che aveva giocato la semifinale già l'anno prima. Eppure ero convinto di potercela fare. Ho perso tre set a zero ma intanto ho avuto set point, insomma, gli ero vicino. Per il verso opposto, se affronto il numero 150, adesso so che devo fargli sentire il mio peso. Per anni, Federer, Nadal e soci hanno vinto partite solo guardando negli occhi gli avversari negli spogliatoi. Nel mio piccolo, quest’anno, certe volte mi sono accorto che entravo in campo contro giocatori che sapevano non dico di non avere chance, ma di stare per affrontare uno che, se non avessero giocato più che bene, li avrebbe battuti. Ed è una sensazione incredibile». Questo stato di esaltazione tennistica è nato da una scelta in direzione opposta al gregge: lo scorso marzo, quando si andava a giocare nelle Americhe o in Europa, lui si è caricato di racchette e classifica mesta (168) per rifarsi il tour dei brutti ricordi dell’Asia: Zhuhai (finale), ancora Shenzen (quarti), Quanzhou (vinto), Qingdao, Anning, Gimcheon (vinto), Seul (vinto), Busan. Due mesi in Oriente con un solo ritorno a casa, per il challenger di Barletta: che non si può non andare a giocare, se sei pugliese.