“La durezza del percorso” è un principio importante. Ogni campione, dopo un grande successo, ha l'istinto di guardarsi dietro e ricordare i momenti difficili che hanno segnato il suo viaggio. Lo ha fatto anche Novak Djokovic quando l'ultimo smash gli ha consegnato lo Us Open 2018. Nole conosce bene il valore del percorso, le difficoltà, persino gli stenti di un baby tennista, costretto a mischiare i sogni con una realtà in cui gli aerei NATO che sganciavano bombe su Belgrado. Come è giusto, tuttavia, certi ricordi sono sfumati. Da allora sono passati 20 anni e una valanga di successi avevano reso bellissima, da favola, la vita e la carriera del serbo. Doveva riscoprire le difficoltà, le sofferenze, la confusione interiore per riavvitare certi punti fermi, tornare a vincere e – soprattutto – apprezzare il valore della vittoria. Può sembrare un paradosso, ma l'anno e mezzo d'inferno, con scelte spesso sbagliate e talvolta insensate, ha restituito a Nole una percezione corretta delle cose. Perdere brutte partite, non trovare una soluzione, circondarsi di persone (col senno di poi) sbagliate, persino sottoporsi a un'operazione: ce n'era abbastanza per “ripartire da zero”, come ha cantato J-Ax nella sua struggente “Intro”. Novak lo ha fatto, convinto che sarebbe rinato. Non solo ce l'ha fatta, ma addirittura a tempo di record. La vittoria a Wimbledon non era frutto di circostanze fortunate, ma le successive vittorie a Cincinnati (foriera del Career Golden Masters) e allo Us Open riconsegnano il giocatore che aveva preso in mano il tennis e che, secondo Mats Wilander, quando si esprime al massimo è più forte di Roger Federer e Rafael Nadal. Difficile confutare la tesi, poiché è in vantaggio negli scontri diretti sia contro lo svizzero che contro lo spagnolo. Battendo Juan Martin Del Potro in una finale raramente in discussione, ha eguagliato Pete Sampras ed è diventato il terzo più titolato di sempre nella storia degli Slam: Federer 20, Nadal 17, Djokovic 14.