Storia pubblicata sul numero di dicembre-gennaio de Il Tennis Italiano
Nella stessa videocassetta in cui conservo un mio ignobile tentativo adolescenziale di rispondere a un quiz di Tele+2 condotto da Giorgio Porrà, sbagliando una facilissima risposta su un quesito di calcio, giace una puntata di Il Grande Tennis, appendice televisiva della rivista di Rino Tommasi che ebbe, ahimè, vita piuttosto breve. Accompagnato da Gianni Clerici che stava presentando I Gesti Bianchi, i due ragionavano sulla carenza cronica di giocatori italiani: un discorso che avrebbero potuto ripetere, pari pari, negli anni a venire, fino a oggi. Tommasi citò «un ragazzino di Cagliari che gioca molto bene ma preferirei non nominare, perché non vorrei bruciarlo». Difficile che Rino facesse un complimento a caso; anzi, difficile che facesse un complimento, punto. E siccome Internet ancora non c’era, ci volle un po’ per dare una identità a colui che ci avrebbe potuto risollevare dalla melma della mediocrità. Anni dopo – fu lo stesso Rino ad aiutarmi – riuscii a dare un nome a quella chimera: Stefano Mocci. Il 28 gennaio 1999, secondo turno dell’Australian Open juniores, Stefano Mocci giocò contro Mikhail Youzhny e perse, 1-6 6-2 6-4. «Ma vincevo 6-1 2-0 e servizio: ricordo il viaggio di ritorno in aereo, seduto vicino a Tommasi e Scanagatta. Mi mangiavo ancora le mani».
Quell’anno, Youzhny arrivò in finale e, a guardare il resto della carriera del russo dal rovescio fantachimerico, è possibile che Mocci abbia proseguito l’opera di rosicchiamento degli arti. Youzhny numero 8 al mondo, quarti di finale in tutti gli Slam, una Davis, un patrimonio sufficiente per passare il resto della vita a contare i fiocchi di neve; Mocci, una scheda bianca nel sito dell’ATP, numero 569. Vinte zero, perse zero, inattivo, il nulla. Chi l’ha visto, Stefano Mocci, classe 1981? Quasi nessuno. Chi davvero lo aveva visto, però, restava con la mandibola socchiusa: era uno speciale, di quelli che il tennis sembravano averlo imparato nella pancia della mamma e giocato da sempre. «Invece no, perché ho iniziato tardi, verso i dieci anni, e per caso. Mio padre non conosceva neanche il punteggio e ancora adesso pensa sia 15, 30, 50. Mia madre insegnava lettere classiche, non mi ha mai visto in campo. C’era un maestro del circolo di Oristano che abitava vicino a casa nostra, io stavo giocando sul lungomare, mi vide e chiese a mio fratello di portarmi al club, per provare». Se Mocci fosse o meno uno da corsa lo può raccontare Potito Starace (ex numero 27 Atp) che, quando se lo trovava di fronte, di game ne portava a casa pochi. A dire il vero anche altri, gente da finale Slam, rimediavano figure simili. Torneo internazionale juniores di Leiria, Portogallo, estate del 1997: David Ferrer vince due giochi, Mocci dodici, 6-1 6-1. Ritaglio della Gazzetta dello Sport di quell’anno, si parla dell’Avvenire,un torneo under 16 vinto da Panatta, Borg, Lendl, Cash, Edberg, Ivanisevic, Coria, del Potro: «Mocci, cagliaritano, 1,86 per 80 chili, già campione italiano under 14, ha eliminato uno dei grandi favoriti: il francese Paul-Henri Mathieu, 15 anni, di Strasburgo, che per hobby gioca a golf e sogna di fare il dentista». Giusto vent’anni dopo, Paulo Mathieu ha appena smesso di giocare e, di fare il dentista, non avrà più bisogno con una decina di milioni guadagnati, qualche rimpianto (chiedere a Youzhny nella Davis 2002) ma, tutto sommato, una carriera che vale una vita, con un picco da numero 12.
Ma che coach era, Angelo Binaghi? «Durissimo. Eccezionalmente severo ma, a differenza di altri allenatori pretenziosi, mi dedicava moltissimo tempo, pur facendo un altro mestiere. Ed era coerente, esigeva da se stesso tutto quello che pretendeva da me. Poi, sarà difficile da capire soprattutto per chi non vive qui, ma in Sardegna quando ero ragazzino, Binaghi era una sorta di divinità greca». Un dio che scendeva in terra per frustare chi sbagliava: «Eccome: ricordo che avevo vinto una partita e spaccai due racchette, per sfogare la tensione. Anziché al raduno federale, Angelo mi fece sbobinare due settimane da venti chilometri di corsa al giorno. La domenica ero distrutto. Se facevamo i cesti e sbagliavo tre volte lo stesso colpo, dovevo mollare la racchetta emi mandava a prendere la sabbia al Poetto» che, per i non sardiniofili, è la spiaggia più grande della città: dal Tc Cagliari, a piedi, sono sei chilometri all’andata e sei al ritorno. «Se ora un maestro lo facesse con un suo allievo, posto che potrei non essere d’accordo sul principio, rischierebbe di trovarsi la camionetta della polizia ad aspettarlo fuori dai cancelli. Ma nel mio caso, lui aveva guadagnato una sorta di immunità perché per me aveva lottato, credeva in me». Per Binaghi non dev’essere stato facile, assistere a un fallimento, alla dissoluzione di un talento così fulgido, impantanato nel tennis dei nessuno e, infine, ritirato nel fiore degli anni. In verità la carriera di Stefano Mocci, dopo qualche brutto infortunio, fu chiusa per decisione unilaterale del giocatore, a 24 anni e prima che fosse davvero iniziata. «Con me stesso ero molto severo: o tutto, o niente. Successe che mi feci male al ginocchio un’ultima volta, mentre ero a Barcellona ad allenarmi; da lì rimasi fermo, a fare nulla. Non fu un bel periodo. Per un paio di anni non ne ho più voluto sapere, del tennis: non riuscivo neanche a guardare le partite in televisione, stavo troppo male. Ci sono ragazzi che si sono creati una sorta di scivolo, magari hanno iniziato a fare tornei Open prima del ritiro, io no: l’idea di trascinarmi fino ai trent’anni, cercando di sopravvivere, la trovavo irrispettosa. Mi sembrava di ridurre me stesso a una macchietta, sarebbe stato uno svilire quello che per me aveva significato tutto. Per tutta la vita non ero riuscito a immaginare niente di più bello che vivere di tennis. Quello vero». E quello cui Mocci, verosimilmente, apparteneva. Ne parla come di una veglia funebre e si capisce che ha macerato a lungo l’anima nell’acido del rimpianto: «Non voglio esagerare ma, al di là delle cose gravi in senso assoluto che possono succedere nella vita, il mio è stato un lutto. Che non tutti possono comprendere. Soprattutto quando capisci, perché telo dicono e perché te ne rendi conto, che il tennis poteva davvero fare per te. Tornassi indietro non sarei così severo con me stesso: smettere così giovane, senza darmi altre possibilità. Oggi, poi, con le carriere dei giocatori che si sono allungate… Ce n’è giusto uno, del 1981 come me, che se la sta cavando ancora piuttosto bene...».
Mocci fa un uso inconsueto della lingua, per aver passato la vita in campo: aggettivi al posto giusto,verbi che non fanno rizzare i capelli in testa. «Mia mamma insegna lettere classiche, mi ha aiutato a scoprire l’importanza di tenermi informato». Costretto a immaginare chi sarebbe potuto essere, azzarda un pronostico ormai scaduto ma verosimile: «Onestamente c’è una fascia di giocatori che reputo sarebbe stata inaccessibile, penso ai primi 15-20 al mondo. Non voglio sembrare presuntuoso, ma nei primi 50 non penso che avrei penato tanto, per arrivare. Ma sarebbe stato tutto da scoprire, perché oltre al talento servono altre cose: la capacità di sopportare la frustrazione, la voglia di essere lì tutti i giorni a dare il massimo». È una litania eminentemente italiana, un Paese col tasso di spreco di campioni che nessuna parte del mondo ci invidia. Oggi, a 36 anni, continua a onorare «una specie di matrimonio con Binaghi che si consuma dal 1994 perché alleno anche suo figlio, che è del gennaio 1999». Nato quando lui si mangiava le mani per quel disastro contro Youzhny. «Sono il responsabile tecnico del Tc Cagliari e sto seguendo anche un argentino, Franco Capalbo. Il tennis lo guardo anche in tivù, adesso riesco ad affrontare con più tranquillità tutto, anche i ricordi. Mi è tornata pure la voglia di giocare: prima non ne volevo sapere, adesso con i ragazzi do una mano per la serie A». Ma se Stefano Mocci non fosse nato in Italia, ce l’avrebbe fatta? «Sono sincero: secondo me, sì. Non voglio dire che non sia stata colpa mia, ma se tanti ragazzi dei miei tempi non sono arrivati, o ce l’hanno fatta in ritardo, è stato per una compartecipazione di colpe. A chi ce l’ha fatta, come Volandri che ha avuto il coraggio di staccarsi e lavorare con Fanucci, o come lo stesso Potito che era stato per un periodo discriminato dalla federazione, non posso che farei complimenti. Sono stati coraggiosi e ostinati».
Il rapporto affettivo col presidente renderebbe difficile una constatazione sui risultati tecnici di alto livello del governo di «Angelo» rispetto a quegli anni di far west, quando il centro tecnico venne addirittura chiuso per essere rifondato altrove,con risultati pressoché impercettibili nel ranking mondiale; in quella Italia di anarchia tennistica assoluta,c’era lo stesso numero e qualità di top 100 che abbiamo oggi e sono, questi ultimi, quattro giocatori di età media superiore ai trent’anni, cresciuti per giunta per conto proprio. Così è, piaccia o no. E«Angelo», che dall’altra parte c’è stato, probabilmente avrà pensato spesso a quel volo abortito di Stefano Mocci, al costo umano, ancor prima che sportivo, di un progetto naufragato, alle ingiustizie di una ripicca personale, di un’esclusione politica, di una decisione sbagliata che contribuisce a tagliare le ali a un giovane attrezzato per farcela. E che non ce l’ha fatta per colpa sua, ma anche perché nel momento del bisogno non ha trovato aiuti ma veti, oppure perché ha scelto un allenatore che non faceva sistema, come quelli che oggi si permettono di rifiutare lo stipendietto di Tirrenia. Quella del rimpianto è l’unica chiave per socchiudere il portoncino: «Da giocatore, ora so che decisi troppo tardi di andare a Barcellona, quando ormai avevo già maturato certe decisioni: avevo perso la visione, il sogno che avevo da ragazzino. Perché in Spagna, e lo dico innanzitutto a me stesso come allenatore, i coach si confrontano, condividono notizie ed esperienze. Da loro è più facile generare buoni prodotti; noi siamo reticenti, vedo ancora tabù, vecchie subculture». Eh, già.