Non è mai riuscito ad avercela, con Agassi, per avergli scippato il sogno di vincere uno Slam. In fondo, se quel 6 giugno 1999 era sullo Chatrier lo doveva anche ad Andre. Due mesi prima, a Monte Carlo, aveva comunicato al suo staff l'intenzione di ritirarsi. Non si divertiva più ad allenarsi, a giocare, non aveva più motivazioni. Lo aveva detto al fisioterapista e al coach Oleksandr Dolgopolov, il cui figlio zampettava durante i suoi allenamenti e sarebbe poi diventato un top-15. Una sera ha incontrato Agassi al Jimmys, e hanno parlato a lungo. “Gli ho chiesto come aveva fatto a risalire quando era sceso al numero 140 ATP. E' stata una chiacchierata lunga, franca, mi ha dato consigli sinceri e preziosi”. Nel frattempo aveva riconquistato l'amore di Anke Huber, migliore giocatrice tedesca alle spalle di Steffi Graf. Lo disse candidamente: l'avventura parigina fu frutto di una ritrovata serenità fuori dal campo. “Insieme abbiamo passato 7 anni bellissimi, le auguro il meglio, ma si è allontanata perché non ci capivamo. Lei non capiva il modo di fare di noi russi, io fatico a capire quello degli occidentali”. Sì, ha detto proprio “russo”, pur essendo nato a Kiev e avendo rappresentato (e bene) l'Ucraina in Coppa Davis, con 20 vittorie su 23 singolari. Nel 1996 disse che avrebbe chiesto il permesso di poter giocare in Davis con la Russia, piuttosto che per l'Ucraina. “Sarei orgoglioso se si riunissero di nuovo. Sarei pronto a morire per il paese”. Non era d'accordo con la separazione, Andrei: da ragazzino, nelle scuole di Kiev, gli avevano detto che la capitale era Mosca. Ha continuato a pensarla così. “Il paese dove sono nato non esiste più: io non ho cambiato cittadinanza, sono stati gli altri a cambiarla a me. Qualcuno pensa che sia meglio così, ma per me è un ragionamento-spazzatura. Come fai a preferire la separazione solo perché così sei il numero 1 ucraino mentre il Russia saresti il numero 3?”. Era convinto, Medvedev, che il tennis russo avrebbe potuto dominare il tennis. Ci è riuscito tra le donne, ci è quasi riuscito tra gli uomini. “Kafelnikov e Safin? Da noi c'è un detto: se giochi bene per un anno, poi devi passare il successivo a festeggiare”. Non odiava le donne, ma odiava le loro pretese di guadagnare le stesse cifre degli uomini. Chissà come avrà preso la raggiunta parità negli Slam, lui che parlava del torneo di Amburgo e diceva: “Il torneo regalava cinque biglietti al giorno a tutti gli abitanti del posto, fino ai quarti. Ma solo per il torneo femminile”. Un personaggio vero, forse troppo complesso per un mondo ovattato come quello del tennis. Sulla terra battuta aveva tutto per diventare un numero 1. Ha vinto per tre volte ad Amburgo, una volta a Monte Carlo giocando al gatto col topo contro Sergi Bruguera. Ma nei match davvero importanti gli è sempre girata male, come la semifinale parigina del 1993 o il quarto di finale del 1994. Più in generale, per sei volte ha perso contro il futuro vincitore del torneo. “Non sono stato costante perché non avevo motivazioni a sufficienza. Ok, ho avuto problemi fisici e qualche operazione, ma non cerco scuse: non ho dominato il tennis come aveva ipotizzato Ion Tiriac solo perché non ero abbastanza motivato”. In una delle sue conferenze stampa-cult, tuttavia, aveva detto di non avere rimpianti per la sua condotta da tennista “Il mio unico rimpianto riguarda una faccenda extra-tennis che non ho saputo gestire, ma quella me la vorrei tenere per me”. Chissà se si riferiva ad Anke Huber. Non ce ne vogliano i tifosi di Andre Agassi, ma il 6 giugno 1999 non è stata una data felice per il tennis. Avrebbe dovuto vincere Andrei Medvedev. Forse, chissà, gli anni 2000 sarebbero stati un po' più divertenti. E i calzoncini indossati da Wawrinka nella finale del 2015 non avrebbero fatto così notizia. Già, guardate quelli che indossava Andrei quel 6 giugno 1999....