Leggenda narra che, quel sabato di luglio 2004, Maria Sharapova abbia sentito / visto piangere Serena Williams nella pancia del Centre Court di Wimbledon. Quel giorno, la tigre bionda stupì il mondo vincendo il torneo più prestigioso di tutti a 17 anni e qualche spicciolo. L’imperatrice nera, invece, quel giorno promise a se stessa che non avrebbe mai più perso contro quella ragazzina. E così fu, con un’eccezione che praticamente nessuno ricorda. Maria, difatti, vinse ancora qualche mese dopo, alle Finals, e poi nulla più: un vuoto pneumatico lungo quattordici anni e diciotto partite di rara cattiveria. Lunedì 4 giugno la regina bianca e quella nera incroceranno ancora i rispettivi destini per una rivalità – pur monotematica che sia – che non scriveva un capitolo da oltre due anni. Nel mezzo, è successo di tutto: una è stata squalificata e poi riabilitata, l’altra ha vinto uno Slam da incinta, ha dato alla luce la primogenita, s’è rimessa in carreggiata ed è tornata a competere. Pompare la prossima partita di altri significati è pleonastico.
PRESENZA SCENICA
Non c’è bisogno di ammirare un dritto vincente per riconoscere una leggenda, basta vedere l’ingresso in campo. La presenza scenica di Serena Williams è qualcosa di impossibile: come lei non c’è nessuno, e per nessuno s’intende nessuno anche con l’accezione maschile. Neanche Roger Federer tiene il palcoscenico come lei, ha una regalità semplicemente inarrivabile. Quando lo speaker fa la classica conta di titoli e curriculum, all’applausometro nei confronti di Julia Goerges non c’è partita. Tolti quattro-cinque tedeschi, sono tutti per Serena. Ad esempio, la salopette nera aderente con la fascia rossa che Serena indossa nonostante le forme spropositate sarebbe grottesca per chiunque, non per lei.