La maledetta sfortuna di Javier Marti

Cinque operazioni al gomito in cinque anni, le ultime due racchiuse in 48 ore, hanno svuotato la forza interiore di Javier Marti. Da ragazzino lottava alla pari con Tsonga ed era al livello di Carreno Busta, ma dopo due faticose ricostruzioni oggi sta pensando di mollare, ad appena 26 anni. Tra le opzioni future c'è il padel.

C'è chi si è ribellato alla sfortuna e ha vissuto il suo momento di gloria.
C'è chi non ne vuole sapere di mollare.
Ma c'è anche chi, a 26 anni di età, si domanda se sia il caso di continuare a dannarsi l'anima. Qualche anno fa, il quotidiano sportivo “Marca” dedicava una pagina a due giovani spagnoli che, nelle speranze, avrebbero dovuto rappresentare il ricambio per il post Nadal: Carlos Boluda e Javier Marti. L'ingombrante etichetta di “Nuovo Nadal” era finita all'alicantino, mentre Marti cresceva con relativa tranquillità, miglior spagnolo della sua generazione insieme a Pablo Carreno Busta. Chissà cosa pensava, Javier Marti, mentre il suo connazionale raggiungeva la semifinale allo Us Open, artigliava i top-10 e giocava addirittura alle ATP Finals. Probabilmente non aveva tempo per pensare, perché stava vincendo un Futures dopo l'altro nel tentativo di rimettere in piedi una carriera andata in malora per un gomito ribelle. Adesso, forse, Javier avrà il tempo di riflettere. E potrà disperarsi, pensando che – senza cinque operazioni al gomito, le ultime due lo scorso maggio, a pochi giorni di distanza – al posto di Carreno Busta avrebbe potuto esserci lui. Di sicuro lo pensava nell'ottobre 2011, quando Juan Carlos Ferrero gli offrì una wild card per il defunto ATP 500 di Valencia. Primo avversario: Jo Wilfried Tsonga, reduce dal successo a Vienna. Con qualità e spavalderia, Marti allungò la sfida al terzo set. Appena diciannovenne, ben fissato tra i top-200 ATP, nutriva grandi ambizioni. “Non solo da parte mia: avevo ottenuto grandi risultati da giovane, le aspettative erano alte, le aziende credevano in me. C'era tanta pressione, ma ero in grado di gestirla”. Se andiamo a leggere la sua scheda, oggi, scopriamo che non è mai andato oltre il numero 170 ATP e ha vinto soltanto tornei Futures. Ma le schede sono asettiche, non raccontano cosa c'è dietro ai risultati, alle montagne russe di una classifica impazzita.

UN CALVARIO DI OPERAZIONI
I guai sono iniziati nel 2013, dopo una sortita sul Centrale della Caja Magica, contro Grigor Dimitrov, quando ha iniziato a sentire male al gomito destro. “Fu colpa del cambio di racchetta – racconta Marti oggi agli stessi microfoni di Marca, nuovamente fermo ai box – sono passato da un telaio flessibile a uno più rigido. La palla viaggiava di più, ma era dannoso per l'articolazione”. Dopo ogni partita gli faceva male il braccio, però un po' di riposo faceva scomparire il dolore. E lui, con l'energia di un 21enne, ha continuato a giocare a tutto spiano. Fino a quando non riuscì a tenere una racchetta in mano. Gli hanno diagnosticato l'epicondilite, infortuno piuttosto comune per un tennista. Il trattamento conservativo non ha funzionato, dunque è finito sotto i ferri nel luglio 2013. Tutto normale, più o meno. Non è normale quello che è successo dopo. A causa di un danno alla cartilagine, si è operato nuovamente nel febbraio 2014. “A quel punto credevo di aver pagato il conto con la sorte, ed ero pronto a recuperare il terreno perso. Ma il tennis è uno sport duro per chi è infortunato: è difficile arrivare in altro, poi quando perdi il privilegio è ancora più difficile riprovarci”. Dopo un ottimo 2015, con oltre 500 posizioni scalate, è tornato in sala operatoria nel 2016 per ripulire l'articolazione e sfiammare la zona. Altro calvario, ma soprattutto la presa di coscienza che il problema si era cronicizzato. Tuttavia, Javier ha scelto di non mollare, forse stimolato dalla mentalità del “Cholo” Diego Simeone, allenatore dell'Atletico Madrid, la sua squadra del cuore. E allora ha giocato un'altra bella stagione, intascando sette titoli e riacchiappando un posto tra i top-250 ATP. Sul campo vinceva, ma fuori era un calvario. Ogni giorno che Dio mandava in terra era costretto a prendere tre pastiglie di antidolorifico (Voltaren e Ibuprofene), più una durante le partite.

L'ULTIMA BATOSTA
“Più volte, durante il riscaldamento, non sapevo se avrei potuto giocare perch non ero in grado di servire”. Sono arrivate le infiltrazioni e pensieri tipici del momento: “Se perdo questa partita, smetto di giocare”. "Invece continuavo a vincere, e questo mi spingeva a continuare a forzare”. Quest'anno ha esordito vincendo un altro Futures, in Florida, nella sede americana dell'Accademia di Emilio Sanchez e Sergio Casal. Ha provato ad alzare il livello, tanto da giocare le qualificazioni anche all'ATP di Marsiglia, ma la sua scheda racconta che il Futures di Madrid, giocato tre mesi fa (con sconfitta in semifinale), è stato il suo ultimo torneo. Motivo? Un'altra operazione, anzi, due. Una volta diagnosticata un'artrosi degenerativa, il 22 maggio si è operato per la quarta volta per ripulire il gomito dal e rigenerare la zona. Incredibile ma vero, un tubo di drenaggio che doveva ripulire la zona ha toccato e danneggiato un nervo. Per questo, due giorni dopo si è dovuto operare per la quinta volta. "Quando me l'hanno detto, ho pensato di trovarmi in una candid camera". Forse lo ha sperato.
Invece era tutto vero.
A parte la classifica (oggi è n.316 ATP), Javier sta pensando per la prima volta di mollare. “Non tornerò a giocare col dolore, e nemmeno se avessi bisogno di nuovi interventi. Forse è giunto il momento di dire addio”. Lo scorso anno, quando le vittorie piovevano, pregustava un 2018 di tornei Challenger. “Perché avevo lasciato i Futures a 18 anni e non è facile dover giocare le qualificazioni a 25”. A maggior ragione se ripensa alle aspirazioni che aveva da 18enne, ripensando ai giocatori che all'epoca gli stavano dietro e che oggi sono tra i top-30 o comunque hanno avuto buone carriere (Ryan Harrison, Filip Krajinovic, Marton Fucsovics). Ma una sua affermazione dello scorso novembre, oggi, risuona sinistra “Sarei molto sorpreso se avessi una carriera a lungo termine”. Pochi mesi dopo, sta pensando di fare l'allenatore. O magari appendere la racchetta al chiodo e impugnare una “pala” da padel, sport che in Spagna ha una dignità pari a quella del tennis. Brian Baker, Tommy Haas e Beatriz Haddad Maia hanno accettato decine e decine di operazioni pur di non rinunciare a una vita nel tennis. Javier Marti no. Forse lui si è stufato. E la pagina che vedete qui sotto rischia di diventare un doloroso ricordo.

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