Per cercare di capirne di più dai diretti interessati, l’ITF ha realizzato due questionari: uno per i giocatori e uno per coach, organizzatori di tornei o responsabili delle varie federazioni nazionali. Il primo, tra l’altro, ci riguarda da vicino, visto che oltre il 5% degli intervistati sono giocatori e giocatrici italiani, secondi soli agli statunitensi. Il 95% di coloro che hanno risposto al questionario non riesce a coprire le spese con i soldi dei montepremi, e visto che ridurre le spese è praticamente impossibile
l’unico modo per garantire una vita più dignitosa agli atleti pare quello di aumentare i prize money. L’ITF ci sta provando: nel 2016 ha lanciato la nuova categoria maschile da 25.000 dollari di montepremi e ritoccato verso l’alto i prize money di quelle femminili, e da quest’anno ha abolito i vecchi “diecimila”, generando un aumento di circa 1,5 milioni nel montepremi complessivo del circuito ITF. Ma la soluzione è ancora lontanissima. La gran parte degli intervistati concorda sul fatto che la fetta di soldi necessari per aumentare i prize money debba arrivare dalle sponsorizzazioni, ma nella stragrande maggioranza dei casi il richiamo dei tornei ITF, specialmente di quelli di montepremi più basso, non supera i confini locali.
Di conseguenza, offrendo un ritorno molto limitato diventa complesso trovare investitori importanti. Quindi tocca arrangiarsi con quello che c’è, la cui divisione spacca a metà l’opinione dei giocatori. Ognuno porta acqua al suo mulino: c’è chi sostiene che andrebbero aumentati i premi per i primi turni, in modo da garantire maggiori entrate a un numero più alto di giocatori, e chi vorrebbe l’esatto opposto, ovvero che i soldi venissero divisi solamente fra chi arriva almeno ai quarti di finale, così che almeno i migliori possano iniziare a incassare delle cifre sufficienti per chiudere in parità.
Vista la situazione, e dato che difficilmente i soldi in palio potranno aumentare (e non è nemmeno del tutto sbagliato: normale che a ricevere il grosso sia chi lo produce, cioè i big), al momento la soluzione più sensata pare proprio quella di ridurre il numero dei giocatori, così da spartire gli stessi soldi fra meno persone, garantendo a tutti entrate maggiori.
Il numero 400 del mondo non diventerà ricco, ma almeno smetterà di rimetterci dei soldi per essere un professionista di tutto rispetto in uno degli sport più importanti al mondo. Di sicuro, la riforma servirà a rendere più professionale un mondo che al momento accoglie troppi dilettanti, tanti dei quali senza i mezzi per competere a livello professionistico e senza la minima chance di costruirsi un futuro da giocatori. E chissà che magari, di riflesso, la riforma non possa finire per dare una mano anche alla lotta contro il match-fixing, togliendo di mezzo quei giocatori (e ce ne sono) che partecipano ai tornei con scopi diversi dal raccogliere punti ATP. La vera struttura del Transition Tour si scoprirà solo fra qualche mese, ma nel frattempo è già un grande risultato il fatto che l’ITF voglia provare a garantire un futuro – e una dignità – migliore anche ai tennisti di seconda fascia.
A costo di sacrificare qualche giocatore che non riuscirà mai a guadagnarsi da vivere col tennis nel bene di chi invece ce la può fare. Ma non alle condizioni attuali.
(*) In realtà il calcolo sembra addirittura troppo generoso: il totale delle uscite non comprende il costo degli allenamenti, che lievita – e di molto – se il coach viaggia anche con il giocatore durante i tornei. Di conseguenza, anche se per la gran parte dei tennisti alla voce “entrate” vanno aggiunti i soldi di gare a squadre, tornei nazionali e magari anche qualche piccola sponsorizzazione, la stima non sembra troppo convincente. A naso il “break-even”, specialmente quello maschile, potrebbe risultare quasi un centinaio di posizioni più in alto).
IL SONDAGGIO SVOLTO FRA I GIOCATORI
IL SONDAGGIO SVOLTO FRA GLI ADDETTI AI LAVORI