Tanti giocatori si appoggiano alla figura del mental coach, ma tu sei stato uno dei primissimi a portarlo con te nei tornei. Cosa riesce a darti più di un normale allenatore?
Noto che molti tendono a nascondere questa figura, e secondo me definirlo mental coach non è nemmeno corretto. La parola giusta è psicologo. Una persona non frequenta uno psicologo solo quando ha dei problemi, ma lo può fare anche con l’obiettivo di una crescita personale. Abbiamo tutti bisogno di capire meglio noi stessi. Ho pensato di portare Roberto con me ai tornei non solo perché mi potesse aiutare su un singolo match, con dei lavori mirati sulla concentrazione, ma anche su un percorso di crescita. Sia per l’Andrea tennista sia per la persona. Lui entra in campo insieme a noi, parliamo, ci confrontiamo. Sono soddisfatto di quanto fatto, e se potessi tornare indietro inizierei prima.
Nel tennis azzurro è arrivato un nuovo Arnaboldi, tuo cugino Federico. È uno dei giovani italiani più promettenti, che rapporto avete?
Più che da cugini, direi che il nostro è un legame quasi fraterno. Ci confrontiamo, lui mi chiede tante cose, si fa consigliare, mi fa piacere. Credo di avere l’esperienza per poterlo aiutare. Secondo me ha un potenziale enorme. Fra giocare bene a tennis e vincere le partite c’è differenza, ma Federico è molto giovane (è nato nel 2000, ndr) e credo possa fare bene. Gli consiglio vivamente un percorso sulla persona: capire come funzioniamo è un passaggio vitale. Prima lo si capisce e meglio è. Per il resto gli ho detto di continuare a fare ciò in cui crede, senza freni.
Fino a metà 2015 il record di match maschile più lungo al meglio dei 3 set era di Roger Federer, oggi è di Andrea Arnaboldi. Che effetto fa?
Me lo godo, e mi fa molto piacere. Anche perché la partita l’ho vinta io. Mi capita spesso che la gente me lo ricordi, non solo in Italia. Diciamo che per ora è il momento più alto della mia carriera.
Ti piacerebbe essere ricordato per quello, o punti più in alto?
Diciamo che preferirei essere ricordato per altro. È stato un bel momento, anche perché poi mi sono qualificato e ho superato il primo turno, sempre con dei match maratona. Lì mi sono sentito pronto per il salto di qualità, l’ho percepito, invece non ce l’ho fatta. Me ne sono reso conto sul serio a fine 2016: ci ho riflettuto e ho capito che una grande chance se n’era andata. Ma ora voglio andare a riprendermela.