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La missione dei coach "pro" (Parte 2)

Quello dei coach di professione è un mestiere per nulla semplice, simile a una vocazione, perché per raggiungere risultati apprezzabili è necessaria una dedizione totale ai propri giocatori. Le soddisfazioni possono essere enormi, ma lo sono anche i sacrifici di una vita da globetrotter. Come la precarietà di un lavoro che offre poche garanzie.
Inchiesta pubblicata sul numero di marzo della rivista "Il Tennis Italiano"

La missione dei coach professionisti (Parte 1)

(segue dalla puntata precedente)
Il mestiere di coach è invidiato da buona parte dei maestri di club. Loro hanno un sacco di seccature, devono confrontarsi con i genitori e cambiare continuamente metodo d’insegnamento in base a chi hanno di fronte, spesso con uno stipendio che varia a seconda delle ore trascorse in campo. In più, oltre che a insegnare, tanti devono occuparsi di organizzare competizioni ed eventi, e magari anche di far quadrare i conti. Un coach, invece, può pensare soltanto al suo giocatore e instaurare quel rapporto necessario per fare bene. Ma non è detto che sia per forza più semplice. «Tanti invidiano questa figura – dice ancora Fabio Gorietti – perché sembra un mondo più dorato rispetto a quello dei maestri classici, ma in pochi hanno la forza e la capacità di prendersi certe responsabilità. Stare settimane lontano da casa, al servizio dei giocatori, non è roba per tutti. Agli occhi di mio figlio, i giocatori che alleno sono come dei cugini, si instaura un rapporto talmente stretto che le dinamiche della vita dei giocatori influiscono sull’umore e sullo stato d’animo di un coach. Poi, per carità, ognuno ha le sue responsabilità e non dico che il mestiere di maestro di club sia più facile o meno importante, ma è chiaro che quando si ha una macchina molto più veloce bisogna saperla guidare a dovere, perché il rischio di andare a sbattere è molto più concreto. Ritengo che per diventare buoni coach sia importante aver attraversato tutte le fasi del percorso d’insegnamento. Parlo di scuola tennis, corsi adulti, lezioni private, pre-agonistica, agonistica e via dicendo. Tutte le componenti che un allenatore deve mettere in moto per far imparare questo sport a dei ragazzi o a persone che non hanno grandi qualità tecniche e fisiche, poi gli tornano utili con i professionisti».
Gli fa eco Massimo Sartori: «Quando ho cominciato, avevo gli stessi problemi che hanno tutti i maestri. Non è vero che il rapporto uno a uno produce necessariamente risultati migliori. All’inizio insieme a Seppi c’erano tanti alti ragazzi di ottimo livello. L’esperienza maturata con le esigenze di ognuno di loro mi ha aiutato anche con Andreas. E non parlo solo di tennis: per crescere un giocatore non bisogna limitarsi al gioco. Il bravo allenatore non è quello che sa insegnare bene il dritto e il rovescio, ma colui che riesce a capire oggi quello che succederà fra tre mesi. I colpi sono fondamentali alla base, un coach li deve conoscere alla perfezione, ma poi diventano la parte più semplice. Se devo scegliere un giovane allenatore, la prima cosa che guardo è chi sta in campo di più, indipendentemente da chi ha di fronte. Un professionista, un bambino, un amatore: non fa differenza. Conta la voglia di dedicargli la massima attenzione». Un caso che merita di essere approfondito è quello di William Rota, bergamasco, 31 anni e già coach a tempo pieno. Ne aveva solo 21 quando nel 2008, grazie a un team privato, gli arrivò l’occasione di seguire il lituano Laurynas Grigelis. La colse al volo e dieci anni più tardi, dopo un’esperienza con Giampaolo Coppo, segue ancorai professionisti all’Academy di Laura Golarsa all’Aspria Harbour Club di Milano. Il suo obiettivo è sempre lo stesso: tirare fuori il massimo da chi si trova davanti, senza badare a nome, qualità e possibilità. «Non avendo vissuto particolari esperienze da giocatore – racconta William – ho cercato fin dall’inizio di affiancarmi a delle figure che conoscessero molto bene questo mestiere. Sono consapevole dei miei limiti e mi rendo conto di non avere un terzo delle credenziali tennistiche di tanti miei colleghi, ma passando anni in giro per i tornei penso di aver raccolto una buona base di contenuti. Ho allenato l’occhio e le qualità personali, legate alla capacità di entrare nella testa dei giocatori. Credo che nella mia condizione, questo mestiere sia molto più difficile rispetto a quanto lo è per un ex giocatore, ma vedere che i professionisti danno retta a ciò che dico è molto stimolante».
William Rota con Alessandro Bega
Messa così sembra facile, ma ogni percorso ha le sue difficoltà. «Nella mia famiglia – continua – lo sport è sempre stato considerato un hobby, perciò ho dovuto lottare non poco per farlo diventare il mio lavoro. Ho creduto nelle mie capacità, nel fatto che fossi in grado di riuscirci, e i buoni risultati ottenuti negli anni mi hanno dato la benzina per andare avanti. Sentirsi in grado di fare qualcosa non dipende solo da se stessi, ma dal consenso di chi si ha di fronte. Per un coach, la forza arriva dal giocatore che allena». E non sempre, vien da aggiungere, è facile trovarla. «Dopo l’esperienza di tre anni con Coppo mi sono preso un anno di stand-by. Se c’è la motivazione il lavoro non è così difficile, ma nel tennis servono tante condizioni e non c’è nulla di garantito, per questo mi sono fermato e mi sono posto delle domande. Poi c’è stato l’incontro con Laura Golarsa: ho trovato una persona piena di energia e di voglia di fare, che ha contribuito a far crescere le mie motivazioni». Così è ripartito, dimenticandosi tanti interrogativi. «A livello economico si sa come funziona: un giocatore che viaggia intorno alla 200esima posizione della classifica fatica a gestire le spese di viaggi e tornei, figurarsi a pagare un coach a tempo pieno. Per me allenare è per prima cosa un piacere. La soddisfazione principale è aiutare un giocatore a esprimersi al massimo: è la base del mio lavoro. Serve la volontà di far crescere i giocatori, fondata su pazienza e capacità di ascoltare. L’ascolto è una forma d’azione. Non è detto che debba sempre parlare o agire io: a volte tutto parte dal giocatore». Eppure, come i giocatori puntano a raggiungere la top 100, che significa gloria, guadagni e una vita più agiata, anche un allenatore preferirà un Masters 1000 piuttosto che un torneo Futures. «Onestamente, io non sono particolarmente attratto da quel genere di vita. Magari dormi negli hotel a cinque stelle e voli in business class, ma non è ciò che mi interessa. Questo mestiere non mi fa sentire figo. Lo faccio perché mi piace e ci vedo solo degli aspetti positivi. Non ho problemi a viaggiare e a stare mesi lontano da casa. Se c’è da partire, lo faccio senza problemi. Due, tre, cinque settimane, non fa differenza. Se uno si trova a dover usare la parola sacrificio, forse è meglio che inizi a fare altro».
E la storiella che se non sei stato un forte giocatore non puoi costruirne uno, non è vera. «Un ex giocatore può avere una marcia in più, ma deve essere supermotivato, altrimenti solo col curriculum non si va lontano. Si dice che il duro lavoro batta sempre il talento, se il talento non ha voglia di lavorare. Possono passare i secoli, cambiare le regole, gli attrezzi, ma ciò che servirà sempre è essere dei gran lavoratori». Dall’altra parte dello smartphone c’è Paolo Cannova, siciliano,classe 1974. Dopo aver tentato l’attività professionistica senza riuscire a sfondare, a 25 anni ha fondato la First on the Court, società che offriva vari servizi alle tenniste del circuito WTA, in primis allenatore, sparring partner e preparatore atletico. Ha lavorato con gran parte delle tenniste più forti del mondo nei primi anni 2000, si è fatto conoscere e così ha cominciato la carriera di coach privato. Nove anni fa è tornato nella sua Sicilia, prendendo sottola sua ala protettrice un (allora) 17enne classificato 2.5. Quel ragazzo si chiama Salvatore Caruso, oggi è fra i primi 200 del mondo e all’ultimo Australian Open ha disputato il suo primo torneo del Grande Slam. «Questo percorso me l’ha consigliato Carlos Rodriguez, con cui ho lavorato nell’ultima parte della sua collaborazione con Justin Henin. Mi disse che la soddisfazione più grande per un allenatore è prendere un giovane e riuscire a fargli esprimere tutte le sue potenzialità: l’ho seguito alla lettera. Avevo la possibilità di continuare nel circuito WTA, ma ho scelto una strada diversa. Lavorare ad alti livelli è gratificante dal punto di vista economico, ma non c’è nulla di più bello che vedere il proprio allievo migliorare giorno dopo giorno. È quello che ti spinge ad andare avanti. All’allenatore serve una grande capacità di fare un passo indietro e mettersi al servizio del vero protagonista. Ma è bellissimo rivivere attraverso il proprio allievo le sensazioni che uno provava da giocatore, anche a livello di sofferenza e trasporto emotivo. Anzi, oggi vivo addirittura emozioni che da giocatore mi erano sconosciute».
Paolo Cannova
Secondo Cannova, la prima regola per un buon allenatore dev’essere instaurare un rapporto molto stretto con il giocatore. «Sarà la mia sicilianità o la mia cultura familiare, ma sono davvero molto legato a qualsiasi giocatore io alleni. Penso che se ci fosse un semplice rapporto di lavoro, senza un grande feeling fuori dal campo, senza la possibilità di confrontarsi,di consigliarsi e di condividere molte dinamiche della vita, non sarei riuscito ad avere nemmeno questi risultati. Se sommiamo il riscaldamento, il match e l’analisi successiva, si arriva a circa quattro ore: vuol dire che in una giornata ce ne sono altre venti. E magari la trasferta dura un mese: limitandosi al rapporto lavorativo, diventerebbe un dramma». Le aspirazioni di un giocatore le conoscono tutti: prima si punta a entrare nel circuito, poi a raggiungere il giro delle qualificazioni Slam, quindi la top 100, obiettivo fondamentale per ottenere guadagni rispettosi dello sforzo e del rischio che ci si è presi sin da ragazzini, e poi passo dopo passo ad andare sempre più su. E quelle di un allenatore? «Per quanto mi riguarda – dice Cannova –, mi piacerebbe diventare allenatore del numero uno del mondo. È ovvio che non ci riuscirò mai, ma se uno non parte con l’ambizione di diventare il migliore, diventa difficile anche arrivare qualche gradino più in basso. Nel momento in cui faccio una cosa, desidero farla al meglio. È per questo che nel corso degli anni ho cercato di fare un collage di tutte le qualità degli allenatori che ritengo capaci. Non si smette mai di imparare. Durante i tornei del Grand Slam vado sempre a vedere come lavorano i giocatori più forti del mondo, che esercitazioni fanno, con quale genere di approccio. Il lavoro del coach è come quello di un avvocato: bisogna continuare a studiare, perché le regole e le leggi cambiano in continuazione».La massima aspirazione è che grazie al lavoro di entrambi un giocatore possa riuscire a vivere di tennis. «È inutile che ci raccontiamo delle stupidaggini: la realizzazione di un atleta passa anche da quello. Se i tennisti giocassero solo per la gloria, il circuito avrebbe un decimo dei giocatori. Tutti hanno la volontà di realizzarsi dal punto di vista umano, sportivo ed economico. A me piace l’idea di aiutare un ragazzo a farcela. Io non lavoro per realizzare i miei sogni, ma per aiutare i ragazzi a realizzare i loro». Più che un lavoro come un altro, quella degli allenatori è una sorta di missione nascosta, che si impara solo stando in campo ore e ore, in un torneo del Grande Slam come in un piccolo Futures. Il palcoscenico non è lo stesso, ma il mestiere è sempre impegnativo, faticoso ed estremamente difficile da incastrare in una vita normale. Ma anche molto molto gratificante, a patto che gli stimoli siano almeno pari (se non superiori) a quelli dei giocatori. È la voglia di fare che conta. Ciò non significa che chiunque possa diventare un coach internazionale perché la formazione – dentro e fuori dal campo – resta una priorità, ma una motivazione enorme può valere più di un buon curriculum.
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