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IL LIBANESE

Una gioventù passata a scappare dalle guerre, prima in Libano, poi in Siria. Ora è tornato a Beirut dove, grazie a uno sponsor, sta cercando la strada verso un sogno chiamato professionismo. Si chiama Fadi Bidan, 12 anni, parla quattro lingue, ha tre passaporti e una voglia matta di trovare un lasciapassare per una vita migliore. Per sé e la sua famiglia
Fadi Bidan impegnato lo scorso anno in un torneo all'accademia di Rafa Nadal
Due bande orizzontali rosse su campo bianco e un albero verde stilizzato al centro. Nella cerimonia del sorteggio, quattordici bambini sfilano con altrettante bandierine, in un torneo che, per storia e valore, vale un campionato del mondo su terra battuta per bambini sotto i dodici anni. Quell’alberello verde stilizzato è il cedro libanese ed equivale a un’ideale freccia per indicare chi rappresenta: un libanese che gioca a tennis e che è tra i più forti d’Europa. Già di per sé, suona assurdo. Lui si chiama Fadi Bidan, ha 12 anni, parla quattro lingue, ha tre passaporti, due patrie e una storia unica. Gironzola per il circolo di Porto San Giorgio (che vanta una delle migliori scuole tennis in Italia) con una felpa rossa con la scritta Lebanon e un paio di Crocs consumate ai piedi. È accompagnato dal padre-coach, Boutros che in italiano diventa Pietro, un signore dalla carnagione molto più scura del figlio e con tratti somatici decisamente diversi ma con gli stessi occhi.

Gli organizzatori del Tennis Europe di Porto San Giorgio gli hanno concesso una wild card anche e soprattutto per la recentissima vittoria nel torneo omologo – per grado, ma non per blasone – di Trieste. «Veniamo dal Libano, sarebbe stato sconveniente affrontare un viaggio così lungo per un solo torneo» dice Boutros. Fadi, tuttavia, non è certo una sorpresa per chi mastica il tennis dei ragazzini: nel 2016 ha vinto il Lemon Bowl a Roma e quest’anno ha già partecipato a tre tappe del circuito Tennis Europe prima di venire a San Giorgio: una vittoria in singolare e due in doppio. Insomma, è tornato sempre a casa con almeno un trofeo in valigia. Boutros è nato in Libano ma è cresciuto in Siria e ciò che ha fatto lui è, sostanzialmente, l’inverso di quanto sta facendo il piccolo Fadi. Una specie di perverso gioco a nascondino in cui, però, ci si nasconde dalla guerra. Boutros ha lasciato il Libano per la Siria prima degli anni 80 per evitare le bombe. Lì ha conosciuto la moglie Maria, che è armena e anche lei allenatrice di tennis, e sono nati sia Fadi sia il fratello minore, Giorgio. Ma anche dalla Siria si deve scappare, nel 2012, a causa di una guerra che ancora non è terminata.

Boutros parla molto, ha gli occhi tristi ma sorride sempre. Ogni tanto spazia dalle chiacchiere tennistiche e, quando lo fa, tutta l’espressione del volto muta come a evidenziare il momento. Come quando parla dei primi anni di Fadi in Siria: «Hai presente cosa può significare per un padre svegliarsi e sentire il figlio che ti chiede se oggi potrà giocare a tennis o arriveranno le bombe?». Ovviamente non lo possiamo capire, ma così funzionava in Siria e Boutros ricorda che varie volte nel tragitto casa-circolo una ordigno è esploso non troppo lontano dalla loro automobile. «Nel 2012 abbiamo deciso di partire, avevamo troppa paura. Io sono libanese, quella è la mia terra, anche se ero consapevole che per Fadi sarebbe stato difficile trovare campi e allenarsi come si deve. Peerò appena arrivati, Fadi ha vinto i campionati nazionali under 10 quando aveva sei anni e il presidente della federazione ha voluto fortemente che prendesse la nazionalità libanese. Da quel momento, Fadi ha tre passaporti: siriano, libanese e armeno».

Fadi Bidan impegnato lo scorso anno in un torneo all'accademia di Rafa Nadal
È evidente anche da lontano il legame strettissimo che stringe Fadi col papà, pur senza superare quella soglia ultra-trafficata che separa i ruoli di padre e allenatore. «Lui diventerà un giocatore professionista, ne sono sicuro. Stiamo investendo tutto su di lui e un giorno ci ripagherà» dice con assoluta fermezza Boutros. Il tennis, del resto, è un affare di famiglia per i Bidan: «Mio padre ha provato a diventare un giocatore – racconta Boutros –, si è anche allenato in America e poi è diventato coach, come me, mio fratello e mia moglie. Il tennis scorre nelle nostre vene al pari del sangue. E anche il fratellino di Fadi gioca molto bene». Certo che, per sognare, occorre scappare dal Libano, un Paese poco più grande della sola città di Roma: «Ci sono 100 campi ufficiali, ma quelli davvero agibili saranno una quarantina – dice ancora Boutros –. La Federtennis libanese vorrebbe aiutarci, ma semplicemente non ha fondi. Fortunatamente siamo riusciti a trovare uno sponsor – una piccola compagnia di advertising di un amico di famiglia, la DreamBox – che si accolla circa il 50% delle spese di Fadi tra voli, hotel e attrezzatura. In cambio, abbiamo firmato un contratto garantendo il 15-20% dei futuri profitti». Si tratta di una spesa annuale che, dice Boutros, si aggira intorno ai 30mila euro.

Fadi ha la carnagione scura, due occhi profondi e dei ricci castani a contornare il viso sottile. Fisicamente è un bambino simile agli altri, ma è evidente come il suo background lo differenzi negli atteggiamenti e nel modo di porsi. Pure il suo tennis è diverso, un piccolo mondo antico: mancino, scende a rete appena può, gode nel giocare la smorzata. Come (quasi) tutti i giocatori di talento, è pigro. Il primo set che gioca nel torneo è deludente: gioca male, quasi perde e alle fine lo intasca per 6-4. «Abbiamo viaggiato in treno per otto ore e ne abbiamo dormite quattro», spiega il papà. Fadi non ha sponsor tecnici, a differenza di molti suoi colleghi. Gioca la prima partita con un paio di scarpe Yonex rosate, con la suola completamente lisa e la tomaia spaccata a metà. Boutros ne cerca disperatamente un paio nuove, magari adatte per i campi in terra, e trova un valido aiutante nell’incordatore del torneo, un ragazzo metà italiano e metà filippino che sa fare a memoria l’appello alla top 300 mondiale: è lui che gli rimedia un paio di calzature a un prezzo umano. Boutros ringrazia, quasi genuflesso.

Il resto del torneo prosegue spedito per Fadi, nel frattempo diventato la stella indiscussa del circolo. Tutti lo chiamano semplicemente il libanese, rimandando per assonanza al leader della banda della Magliana di Romanzo Criminale. Il cammino di Bidan termina in semifinale, sconfitto con un doppio 7-5 dal bulgaro Marinov, al termine di un match intenso. Il torneo di doppio, vinto in coppia col coreano Jung Hun Seo – vincitore poi anche del singolare – è poco più di una consolazione. «Il mio idolo è Nadal perché sono un fighter come lui» assicura Fadi con un certo orgoglio. Boutros, che sceglie l’arabo per comunicare col figlio, lo coccola, lo protegge, lo custodisce come un gioiello prezioso perché, in fondo, è cristallino che questo riccioluto moccioso con gli occhi scuri e un filo tristi è l’unico lasciapassare verso un futuro migliore, lontano dalle bombe e dalla spola Siria-Libano. E se per quasi tutti gli altri bambini il tennis è uno sport, per la famiglia Bidan è molto di più. Ci si gioca la vita e non è retorica.

IL MIRACOLO DI PORTO SAN GIORGIO
Porto San Giorgio, 16mila abitanti, uno dei tanti paesi affacciati sull’Adriatico dove il mare non è quello della Sardegna, ma col turismo ci sanno fare. Il circolo è una mini-officina di talenti: qui crescono giocatori e giocatrici di seconda categoria a grappoli, almeno una ventina nell’ultimo decennio, e qualche giovane diventato poi professionista. Risultati impressionanti, quasi insensati, considerate le dimensioni del circolo (tre campi incastrati in un fazzoletto di terra). E alla quantità si abbina anche una certa qualità, a partire da Gianluigi Quinzi, figlio del presidente del circolo, e orgoglio di un’intera regione che al tennis italiano sta offrendo molto, diretta dal vulcanico presidente regionale, Emiliano Guzzo. Marchigiana è infatti anche Elisabetta Cocciaretto, tra le migliori speranze azzurre del prossimo futuro. Le ragioni possono essere due: Porto San Giorgio è una terra benedetta dove nascono tutti fenomeni o Antonio Di Paolo, il maestro che cura questi pargoli sin dai primi colpi, è un grande istruttore. La seconda ipotesi è più verosimile. Il torneo under 12, arrivato all’edizione numero 36, è il fiore all’occhiello del circolo. Quest’anno nel maschile ha vinto Jung Hun Seo, un piccoletto coreano che quasi nessuno aveva pronosticato vincitore (a parte Gianluca Quinzi – fratello minore di Gianluigi – che ne aveva vaticinato il successo da subito). Di venti maschietti italiani, uno ha raggiunto le semifinali – Sebastiano Coccola – ma forse quello che ha lasciato maggiormente il segno è stato Federico Cinà, detto Pallino, e figlio di Francesco: ha 11 anni e gioca con una pulizia tecnica meravigliosa. Nel femminile, francamente, ha dominato Ela Nala Milic, figlia d’arte – seppur di un’altra arte, visto che papà Marko era uno dei cestisti più stimati in Europa –, supera già il metro e 80 e ha perso in tutto tredici game in tutto il torneo.
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