23 May 2015

Il Girone dell'Inferno

Un giorno alle qualificazioni di Roland Garros. Dove un match può spalancarti le porte del Paradiso o rispedirti negli inferi. La frustrazione di baby Zverev, l'ammirazione per Sijsling, il tizio che studia i ballboys...e Arnaboldi meglio della Gioconda.

PARIGI

- Ouvreeez les pooortes! I controllori di Roland Garros lo urlano come farebbero i marescialli all'adunata del mattino, anche quando si tratta semplicemente del torneo di qualificazione e all'entrata c’è solo una manciata di appassionati. Insieme a loro, 128 giocatori e altrettante colleghe, si giocano l'ingresso al main draw e il diritto a ricevere un bonifico di ventisettemila euro, dovessero anche rimediare una figuraccia al primo turno. Per questo ci trovi di tutto: giovani speranze che cercano conferme e vecchie conoscenze, incollate ad un sogno che non arriva mai. Come nel primo match di una tipica giornata parigina, dove estate e inverno si alternano ogni dieci minuti. Da una parte, Alexander Zverev, 18 anni, grande promessa del tour mondiale. Il suo sponsor, la Nike, lo ha vestito a puntino, con colori che non passano inosservati e ogni accessorio in tinta. Anche il suo angolo è facilmente riconoscibile: il papà-coach è vestito uguale, di fianco una buona schiera di accompagnatori, compreso quello che mi azzarderei a indicare quale suo manager, visto la scarpa scamosciata, la bella camicia parzialmente coperta dal Moncler e il viso abbronzato da chi deve disseminare benessere. Dall’altro lato, Igor Sijsling, olandese, 27 anni; veste una maglia azzurra generosamente ricevuta in dono dalla Sergio Tacchini. Ad osservarlo sugli spalti, c'è solo Jan Siemerink, e il rimpianto per quel serve and volley che fu. In realtà, succede che vince proprio Sijsling, col suo tennis Anni 80, fatto di rovescio in back e una risposta da bloccare sempre dentro la riga, quasi a dimostrare insofferenza verso la moda lanciata da quel Nadal (e ripresa da molti), di attendere passivi quattro metri dietro la riga di fondo.

La differenza di età è chiara osservando l’atteggiamento: Sijsling è impassibile anche davanti all’evento più sfortunato (compreso il giudice di sedia che conferma l’idiosincrasia francese con le altre lingue, visto che riesce a sbiascicare solo un pessimo Scising), mentre il giovane Alexander è infastidito dalla più piccola avversità, come non riuscisse a capacitarsi di esser lì a battagliare contro un avversario che tutti gli riconoscono inferiore. Così prova a rubacchiare un quindici, saluta la mamma del giudice di sedia al primo overrule e cerca insistentemente lo sguardo paterno, come il ragazzino che cerca un aiuto per scappare da un guaio. E' invece evidente che Sijsling non ha passato la sera precedente da Pain, Vin et Fromage con la sua bella fidanzata, ma è rimasto in compagnia del suo coach a studiare un piano tattico che sta svolgendo con determinazione pari alla diligenza. Perché ciò che mi lascia ammirato da Sijsling, non è la sua capacità di giocare uno strettino in back o una smorzata millimetrica, ma la sua velocità di pensiero nel decidere di giocare quella soluzione molto alternativa, nonostante la palla gli torni indietro sempre svelta. Un po’ come il pilota di Formula Uno che deve affrontare una chicane dopo due rettilinei a 350 km/h. Un piccolo genio.

Sull’ultimo colpo finito largo di Zverev sull'ennesimo back senza peso, finalmente Sijsling dà segni di emotività, saltellando per il campo come una molla impazzita e senza più preoccuparsi di calpestare le righe, come accaduto per tutto il match, denotando una preoccupante superstizione. A Zverev non resta che scaricare la frustrazione cercando di rompere una racchetta, ma nemmeno quello gli riesce. “Ha perso di testa” commenta il solito esperto. E questo volta è vero: a Zverev è mancata la capacita di accettare che l'avversario potesse giocare un gran colpo nell'esatto momento in cui ti verrebbe comodo che combinasse una cazzata. Ci teneva tanto, il tedesco, a questo match: passare le quali a Roland Garros vuol dire puntare al Philippe Chatrier, con una platea da quindicimila persone e qualche altro milione che ti osserva in mondovisione, l'inviato della Bild che pende dalle tue labbra e una selva di ragazzine che ti allungano qualunque cosa per avere il tuo nome scribacchiato sopra. Invece, se terrà fede ai suoi impegni, settimana prossima Zverev sarà impegnato all’ATP Challenger di Vicenza, con un gruppetto di spettatori a farti visita e, se ti va bene, l’inviato del Corriere di Vicenza. Non è la stessa cosa.

Spostandomi sul campo attiguo, non posso far meno di notare un giovanotto, 30 anni forse, un grande bloc-notes tra le mani. Prende appunti ma non è uno scout e se ne infischia delle qualità dei giocatori; se mi credete, sta lì a registrare le prestazioni di ogni singolo raccattapalle (quest’anno vestiti con calzettoni al ginocchio e scarpe a fiori disegnate dallo stilista Yohyi Yamamoto per conto di Adidas: una scelta francamente discutibile), in quella che può sembrare quasi una vessazione ma che indica quale attenzione ai particolari ci sia in questo torneo.

Sul campo 9, un sosia di Zverev (stesso capello biondo, stesso fisico asciutto, il completino Nike d’ordinanza e una certa ferocia nel colpire) sta tritando un tipo abbronzato, come direbbe Berlusconi. Questi è Ramkumar Ramanathan, ha speso 1.300 euro di solo biglietto aereo per raggiungere il Bois de Boulogne da Madras, in India. Fin qui ne ha guadagnati 6.000 lordi, che Hollande farà dimezzare, se va bene. Per questo si danna come se da ogni quindici dipendesse il suo futuro ed esulta anche quando si trova sotto 5 a 1 contro tal Jared Donaldosn, il cui biglietto aereo e soggiorno annesso suppongo sia stato pagato dalla ricca federazione americana. Un confronto tra opposti: Ramanathan, se non proprio un paria, deve comunque sudarsi la vita da tennista; l’altro è il più classico degli All American Boys; avesse fatto l’Università, si sarebbe portato la Miss al ballo di fine anno e qui si muove con l’aria sprezzante di chi pare voglia affermare una certa superiorità di casta, non solo tennistica. Per questo viene naturale tifare India, senza che questo intervento possa spostare minimamente i valori in campo. Anche perché Donaldson si dimostra il miglior prospetto ammirato in giornata.

L’aspetto migliore del Torneo di Qualificazione è l’atmosfera rilassata: le addette alla sicurezza all’ingresso dei campi salutano tutti senza distinzione e senza distrazioni, come a prevenire qualsiasi potenziale protesta. In più, si può passare da un campo all’altro senza code, imprecando per gli otto euro di un Haagen Dasz e scambiando qualche chiacchiera con gli altri avventori. Ecco, anche il pubblico delle qualificazioni è diverso da quello delle finali del torneo: viene per vedere e non per farsi vedere, non passa la giornata a scegliere la t-shirt da sfoggiare al ritorno e non pasteggia da Lenotre, ma con wurstel e mostarda di Amora portata rigorosamente da casa. Ma soprattutto, resta incollato ai match. Questo è infatti uno dei rari casi in cui si possono ammirare i giocatori da molto vicino e lasciarsi impressionare dalle loro qualità. Ora, la potenza con cui colpiscono è il souvenir che si porta a casa il neofita; in realtà, è sorprendente soprattutto la velocità di gambe che rende davvero complicato tirare un winner. Almeno fin quando non arriviamo sul campo di Asia Burnett, la nostra Miss Tennis Italia, che ha due gambe meravigliose ma probabilmente più adatte alle sfilate che alla corsa. Reduce da un brutto infortunio, perde facile contro la brasiliana Haddad Maia, ma il suo seguito lo avrà sempre, perché i gonnellini attirano sempre i guardoni.

Gli italiani restano una buona attrattiva. Si tende a tifare come fossero splendidi amici, anche quando non li si conosce affatto. E' il caso di Andrea Arnaboldi, il cui match è stato sospeso la sera prima sul 15 pari, intesi come game e non come singoli punti. AA si (ri)presenta con una maglia giallo fluo e shorts che in molti hanno definito "un pigiama" e che fanno rimpiangere il gusto della classica moda italiana. Dall’altra parte, Pierugo Herbert, classe e savoir-faire francese, che qualche anno fa fece outing sull’Equipe per informare delle cattive condizioni di vita di qualsiasi tennista al di fuori dei primi 150 del mondo. Un match che poteva chiudersi in dieci minuti, è andato avanti oltre l’ora di gioco, superando le quattro complessive e diventando il più lungo di sempre nelle qualificazioni del torneo. Arnaboldi è incitato con assiduità da Elisabetta da Curno, provincia di Bergamo, alla quale un saggio Ministro della Cultura cancellerebbe immediatamente la laurea in Lettere con tesi sulla Storia dell’Arte: “Volevo andare al Louvre, ma alla Gioconda ho preferito Arnaboldi" mi ha confessato senza apparente vergogna. Alla fine l’ha spuntata Arnaboldi, 27 a 25, con una stretta di mano insolitamente calorosa. A questo livello infatti, si nota minor fair play, a conferma della teoria che la correttezza in campo è inversamente proporzionale al livello dei giocatori. Niente bacini sotto rete e good luck per il prossimo match, perché chi perde sa già cosa lo aspetta: il conto in rosso, il trenino per l’aeroporto e un volo low cost per provare un’altra chance. Voglio dire, certe frustrazioni un top ten almeno le affoga nello champagne.

Ma al di là della vittoria o della sconfitta, la reazione composta di Arnaboldi dopo il successo, deve far riflettere sulla vita del tennista è in particolare sulla sua impossibilità di compiacersi. Per esempio, i film americani ci mostrano spesso un avvocato che, dopo una lunga e vittoriosa battaglia legale, finisce con lo sbirrazzare tutta la sera, spesso in buona compagnia e con la consapevolezza che il giorno dopo lo passerà in mutande, facendo zapping alla tv e assicurandosi che la cospicua fattura per i suoi servizi sia arrivata al destinatario. Andrea Arnaboldi è invece appena sopravvisuto a quattro ore di battaglia, ma lo aspetta ancora il defaticamento, un trattamento fisioterapico, un paio di interviste e il massaggio decontratturante. Niente birra, niente seratina al night, niente zapping in tv. Domani lo aspetta Marco Trungelliti. Per il diritto di sognare ancora di poter diventare qualcuno. Ecco cosa ti ricorda un giorno passato al torneo di qualificazione di Roland Garros.
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