"DADDY, DADDY!"
Pochi minuti dopo, abbiamo visto le stesse scene di qualche anno fa. Nole che bruca l'erba, la mangia, come a riprendersi simbolicamente quello che aveva perduto. Ritorno al passato, dicevamo, ma nel suo box c'era qualcosa di nuovo: il piccolo Stefan, primogenito di Nole e della moglie Jelena. “È la prima volta che qualcuno mi urla 'papà, papà!' - ha detto Nole con un sorriso a 32 denti che provava a mascherare la commozione – forse non potrebbe stare in tribuna perché non ha ancora cinque anni, ma sono felice che possa essere lì”. E allora questo è il Wimbledon della maturità, di un nuovo Djokovic che torna a vincere qualcosa di importante dopo due anni di digiuno (se escludiamo il piccolo torneo di Eastbourne). I segnali della rinascita c'erano tutti, anche se pochi pensavano che il successo sarebbe arrivato così presto. Eppure, partita dopo partita, ha trovato un rendimento sempre migliore. La vittoria contro Nadal in un'epica semifinale gli ha fatto capire di essere ancora in grado di vincere partite importanti. Una consapevolezza che ha cancellato l'ovvia fatica per aver speso oltre cinque ore in campo, sia pure spalmate su due giorni. Con la classifica al numero 21 ATP (che però diventerà 10 tra poche ore), Djokovic diventa il peggio classificato a vincere Wimbledon dai tempi di Goran Ivanisevic, nella storica edizione del 2001. Capita raramente che la finale sia il match più bello del torneo: Wimbledon 2018 ha rispettato questa legge non scritta: i fatti degli ultimi giorni hanno pesantemente condizionato una giornata resa complicata dal caldo, con quasi 40 gradi a bruciare l'erba del Centre Court.