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Dominic Thiem, The Dominator

Non ci fosse un certo Rafael Nadal, forse avrebbe già in salotto un trofeo del Roland Garros. In ogni caso Dominic Thiem resta una delle alternative più credibili, come dimostrato nel 2017 a Roma e quest'anno a Madrid. Il tutto grazie a un coach che l'ha cresciuto da quando aveva 12 anni, e che lo vorrebbe solo un po' più cattivo.
Cover story pubblicata sul numero di maggio 2018 della rivista Il Tennis Italiano

«Quando avevo 11 anni iniziai a colpire qualche rovescio a una mano. Solo che avevo un’impugnatura sbagliata, mio padre e Günter mi dissero che con quella tecnica avrei avuto dei problemi, e che sarebbe stato meglio per il mio futuro di tennista cambiare presa e rinunciare definitivamente alle due mani». La storia di uno dei colpi più adrenalinici del tennis è raccontata da Dominic Thiem, 24 anni, già numero 4 al mondo e stabile top ten, un po’ come farebbe il suo amico Sascha Zverev: senza alzare il sopracciglio, come fosse normale che un ragazzino in prima media discutesse non del compito in classe del lunedì ma del modo più opportuno per farsi strada nel professionismo. Del resto, papà e mamma Thiem insegnano tennis in Austria da sempre e Günter Bresnik, uno che ne aveva già visti tanti e che la ricetta per arrivare da Lichtenwörth a Roland Garros ce l’ha in tasca e la vende con successo, capì presto che quel ragazzo aveva tutti i pezzi al posto giusto, e non solo i genitori ideali. «Però – interrompe Dominic, che a Monte Carlo ha inaugurato la stagione sulla terra rossa dopo un infortunio piuttosto serio alla caviglia destra – non sono d’accordo con chi considera il rovescio il colpo più forte che ho. Dritto e servizio, quelli sono i pilastri del mio gioco. Gran parte dei danni che faccio al mio avversario nello scambio arrivano dal dritto».
Thiem è un animale da terra rossa ma non ha ancora le fattezze del gigante. L’età è dalla sua e, tra i giovani (o i non-vecchi) viene già ritenuto l’avversario numero uno sulla terra di re Nadal, dal quale lo dividono però dieci titoli a Parigi e un bel po’ di altri 8.000 metri già scalati: «Rafa, in una parola, è una bestia. Batterlo è stato incredibile, contro di lui a Roma lo scorso anno ho giocato il match perfetto. Se da una parte sono contento sia successo, perché mi ha dato la prova che posso vincere contro il migliore di tutti su questa superficie, dall’altra so che non posso pensare di giocare tutte le partite come quella, non sarebbe realistico». E può vantarsi di un fatto raro: ha battuto i due fenomeni del nostro tennis sul loro terreno eletto, Rafa sulla terra e Federer sull’erba (la semifinale di Stoccarda, due anni fa, cancellando due match point): «Però non metterei le due vittorie sullo stesso piano. Quando ho battuto Roger nel 2016 lui non stava bene, aveva mal di schiena, giocava poco e sicuramente non era al massimo. Quella su Nadal ha tutto un altro valore».
I fogli dei mesi scorrono e, per un classe 1993, la campanella del tempo comincia ad agitarsi. Se questo ragazzo dal fisico roccioso e dall’esplosività rara – l’unico capace di scagliare, anche fuori di metri, un colpo di rimbalzo tirato a 150 all’ora pestando i piedi ai giudici di linea – ha già ottenuto tanto (un posto nei dieci, sette tornei categoria 250, due 500 e una finale nel 1000 di Madrid) la questione della successione al vertice diventa sempre più difficile da schivare. «Me lo chiedono spesso, quando succederà. Posso dire questo: se penso a Federer, Nadal, Djokovic e poi a me, a Sascha (Zverev), a Grigor (Dimitrov) dico che siamo ragazzi molto fortunati. Perché abbiamo avuto l’opportunità di giocare contro tre dei più grandi tennisti di tutti i tempi ma siamo ancora abbastanza giovani per sapere che, quando loro smetteranno, noi saremo ancora qui. E avremo le nostre opportunità. Questo non vuol dire che io sia contento di avere quasi 25 anni e non aver ancora vinto uno Slam: se loro non fossero arrivati tutti insieme, a quest’ora uno di noi ce l’avrebbe già fatta». E quale Slam? Dopo le due semifinali 2016 e 2017, la risposta è scontata: «Parigi. Rimane il mio sogno, e non solo per i risultati recenti e per il feeling che ho per questi terreni ma perché dal 2011 è un posto speciale per me». Sette anni fa, Dominic aveva giocato il match per il titolo under 18 perdendo contro un altro predestinato senza lo stesso destino, Bjorn Fratangelo: un ragazzo il cui padre aveva già deciso la sua strada, un po’ come Wolfgang e Karin con Dominic, dandogli il nome di Borg.
In realtà il dubbio sul prossimo passo di Thiem, da campione a superstar, non è tutta e solo una questione di concorrenza troppo qualificata. Gli manca ancora quel quid che eliminerebbe le scorie, la mancanza di visione di gioco, la scelta dei colpi, la continuità, la costanza. «Ci sono parti del mio tennis che, secondo me, non si sono evolute rispetto al 2016, l’anno in cui sono diventato top ten. Anzi, tutt’altro. Due anni fa ero un giocatore più naturale, cercavo più soluzioni. Devo recuperare le capacità che so di avere nel gioco di volo, nel tirare fuori la smorzata al momento giusto: ora ho l’impressione che gli altri siano più a loro agio a giocare contro di me, perché sono più prevedibile. Faccio sempre le stesse cose». E la prevedibilità è voce comune anche riguardo alla sua disciplina, che ricorda quella dell’altro animale del rosso, Thomas Muster. «Ma non sono così forzuto. La pressa la uso con un carico da 70 chili, che non è tanto. Le flessioni neanche so cosa siano, forse ne faccio 10 o 15 quando capita. Non sono sicuramente il ragazzo più forte che ci sia, in palestra. Ma sono sicuro che lavorare sial’unica strada: ci sono tanti giorni in cui non senti la palla, non stai bene eppure di là c’è uno che vuole vincere come te. Se ti sei sempre allenato, hai più possibilità di farcela. I giocatori più forti sono quelli che riescono ad arrivare in fondo in quelle giornate, che poi sono la maggior parte delle volte in cui ti tocca giocare». I più bravi ci riescono proprio negli Slam: Thiem, per adesso, è sempre sceso prima del capolinea.
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