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Massimo Garlando
01 February 2017

L'alfabeto: Australian Open 2017 dalla A alla Z

Dalla A di “avevano ragione” alla Z di Zverev, ripercorriamo le vicende dello Slam appena concluso con il nostro speciale alfabeto. A voci “classiche” si accompagnano altre più originali, magari inattese. Perché Roger Federer e Serena Williams non sono stati gli unici protagonisti a Melbourne Park.

A come AVEVANO RAGIONE gli appassionati che, già a partire dai quarti di finale, si stropicciavano gli occhi al pensiero di una finale tra Federer e Nadal. Non ero tra questi, non faccio fatica ad ammetterlo, specialmente dopo una prima settimana che aveva spazzato via quella annunciata tra Murray e Djokovic. Speravo in qualcosa di nuovo, non certo nell'ennesimo capitolo di un qualcosa che sentivo come già visto. Quanto mi sbagliavo! Ho avuto la fortuna di assistere in diretta a uno di quegli eventi di cui si parlerà ancora tra quarant'anni, che magari diventerà un film. La chiusura del cerchio, probabilmente la fine di un'epoca.

B come BECKER. Domanda da centomila dollari per Novak Djokovic: e se fosse stato un errore liberarsi di Bum-Bum, dopo tre anni di proficua collaborazione? No, perché a questo punto, viene il dubbio che il campione tedesco, considerato dai più un personaggio prima che un coach, un bevitore di birra dal nome altisonante prima che un uomo di campo, abbia avuto un ruolo non del tutto secondario nella costruzione del Djokovic dominante e serio candidato alla conquista del Grande Slam. Soprattutto a livello mentale.

C come CEMENTO. Veloce, come le palle, molto più del recente passato. Sostengo da anni, come molti appassionati, che l'omologazione delle superfici sia una Corazzata Potemkin e che favorisca soltanto l'omologazione dei risultati, a discapito dello spettacolo. Questo torneo ne è la dimostrazione. Un numero importante di partite spettacolari, di set decisivi sul filo di lana, sorprese, qualità. E le maratone di cinque ore abbondanti, gli scambi da ottocento colpi, che diventano l'eccezione e non la regola. E' ora di tornare al cemento, alla terra e all'erba veri, spero che lo abbiano finalmente capito anche ai piani alti.

D come DIMITROV. Qualche segnale molto incoraggiante era già arrivato da Brisbane, dove aveva vinto il torneo battendo in serie tre top ten come Thiem, Raonic e Nishikori. Si conferma alla grande a Melbourne, favorito certamente da un tabellone amico, disputando in semifinale contro Nadal la partita (di gran lunga) migliore della sua vita. Non gli basta per vincere, ma dovrebbe essere sufficiente per regalargli finalmente la piena consapevolezza dei suoi mezzi. Intanto, la cura Vallverdu sembra funzionare alla grande.

E come EVANS. Che fosse un talentaccio lo avevamo capito, che avesse poca voglia di fare l’atleta al 100% pure. Ora sembra che abbia messo la testa a posto, e se continua così ci farà divertire parecchio.

F come FEDERER. Il pericolo della retorica è dietro l’angolo, quindi mi limito ai fatti. E' rientrato a quasi 36 anni, dopo sei mesi di assenza dal circuito, da testa di serie numero diciassette. Al momento del sorteggio del tabellone, i più pessimisti lo vedevano già a rischio con Berdych, mentre qualche temerario si spingeva a pronosticarlo vittima sacrificale di Murray ai quarti. E invece è tornato, imponendosi per tre volte nel set decisivo e trovando, dopo quasi tre lustri, la chiave per disinnescare la sua nemesi storica. Ed ha conquistato lo Slam numero diciotto. Basta?

G come GUNNESWARAN. Prajnesh Gunneswaran, tennista indiano numero 319 del mondo, durante la semifinale dei playoff asiatici per l’assegnazione di una wild card nel tabellone di Melbourne, ha avuto a disposizione tre match point contro Denis Istomin. Uno di questi è stato annullato con un vincente molto vicino alla riga. Se lo avesse trasformato, forse starei raccontando un’altra storia.

H come HAWK-EYE. E’ stato sempre il nemico giurato della carriera di Federer, costellata da chiamate fallimentari e a volte imbarazzanti. Ma, questa volta, l’occhio di falco ha deciso di restituire tutto con gli interessi, prendendosi la scena dopo l’ultimo punto e aggiungendo un pizzico di pathos ad un evento che ne contava già a tonnellate.

I come ISTOMIN. Per una volta, legge il nome di Seppi dall’altra parte del tabellone. E realizza l’impresa della vita, eliminando Djokovic al secondo turno. Ho già detto del modo abbastanza rocambolesco di accesso al torneo, mi piace anche ricordare come non abbia fallito la prova del nove, portando Carreno Busta sull’orlo di una crisi di nervi e prendendo a pallate per un set il miglior Dimitrov della carriera.

L come LUCIC. Al netto della leggenda federeriana, la sua è senza dubbio la favola di questa edizione degli Australian Open. Aveva raggiunto la semifinale in uno Slam una sola volta, nello scorso millennio, edizione 1999 di Wimbledon, quando era difficile separare la sua storia di bambina prodigio dai difficili rapporti con il padre. Si è ripetuta oggi, a trentaquattro anni, dopo una serie di vicende personali che un giorno, forse, riuscirà a raccontare nei dettagli.

M come MORA (Lele). Entra, anche se in forma non ufficiale, nello staff di Camila Giorgi, con il ruolo di “suggeritore esterno”. Ammesso e non concesso che Lele Mora sia la figura giusta per la svolta della sua carriera, Camila è un patrimonio troppo importante per il tennis femminile italiano, nel momento del crepuscolo della generazione di fenomeni di Slam e Fed Cup. Per il momento, colleziona un altro primo turno Slam, perdendo in volata con la Bacsinszky una partita in cui, come quasi sempre accade, ha fatto carte dal primo all’ultimo quindici. 

N come NADAL. Nel torneo della rinascita, scelgo di sottolineare il suo straordinario adattamento alla superficie decisamente veloce per gli standard recenti, che lo rende non da oggi l’emblema del darwinismo applicato al tennis. Si veda come esempio la posizione in risposta alla prima di servizio di Raonic, arma letale del più che deludente canadese. Non ho finito, perché è il caso di ricordare anche il fair play dimostrato nelle dichiarazioni a caldo, nel post partita. Una bella lezione ai troppi tifosi di Federer che (a differenza del loro idolo, che ha invece sempre manifestato nei confronti del rivale una stima incondizionata, oltre a una solida amicizia) lo hanno sempre considerato, nella migliore delle ipotesi, un usurpatore colpevole di fare ombra alla grandezza del Re.

O come OUTSIDER. Stan Wawrinka è diventato negli anni piuttosto esperto nel vincere titoli Slam già prenotati da altri. Questa volta, all’alba della seconda settimana del torneo, si è trovato nell’insolita condizione del (quasi) favorito. E ha steccato.

P come PIERUGO. Nel disinteresse generale, il mio pupillo Herbert non onora la cambiale del 2016 ed esce mestamente dai top100 (e anche in doppio non fa molto meglio). Mettiamola così: dopo anni di bocconi amari, Delbonis è diventato l’eroe argentino del match decisivo di Davis, Lorenzi ha vinto un torneo Atp e si è costruito una classifica incredibile, per non parlare di Misha Zverev, che ha battuto il numero uno del mondo in uno Slam. Coraggio, Pierugo, anche tu un giorno mi regalerai qualche soddisfazione.

Q come QUINTO SET. Più di venti match risolti al set decisivo, da quello eterno tra Karlovic e Zeballos, a quelli fatali a Lorenzi e Fognini, a quello carico di rivincita per Seppi. Trionfali per Federer e Nadal (che non ne vinceva uno da due anni), infausto per Djokovic. Inevitabile che le ultime tre partite del torneo maschile abbiano avuto questo esito, a dimostrazione del fatto che lo Slam è proprio un altro sport.

R come ROVESCIO COPERTO. I sei mesi di stop hanno costruito l’arma vincente di Federer in finale, trasformando il punto debole nel colpo decisivo. Forse questo cambiamento ha molti padri, dalla velocità della superficie, al nuovo ovale. Ma, senza fare torto a nessuno, credo di poter dire che un ruolo determinante lo abbia avuto Ivan Ljubicic, mente sopraffina come giocatore, commentatore tv e, inevitabilmente, anche come coach. Prima della finale ha detto semplicemente a Roger che non doveva giocare contro Rafa, ma giocare la palla. Federer lo ha fatto, dal primo all'ultimo punto, e ha vinto. Riuscendo a realizzare, con Ljubo, l'impresa che non gli era riuscita con Edberg. 

S come SEPPI. Affrontava il suo Slam preferito dopo una stagione 2016 più che anonima e con la non entusiasmante prospettiva di precipitare fuori dai primi 100 (rischio già evitato sul filo di lana qualche mese fa). Ha invece costruito la vendetta perfetta contro Kyrgios, confermandosi nel turno successivo e cedendo solo ad un ottimo Wawrinka in un match lottato. Lunga vita all’highlander di Caldaro!

T come TRENTA (over). Il torneo dei nonnetti, età media dei finalisti quasi da dopolavoro, una sorta di Cocoon consolatorio anche per noi ultraquarantenni, che grazie ai protagonisti di dieci anni fa possiamo illuderci per un momento che il tempo stia passando un po’ più lentamente.
 
U come USA. Dominanti nel tabellone femminile, non pervenuti o quasi in quello maschile, l'unico americano veramente protagonista del torneo è stato Jim Courier nelle interviste del dopo partita. In compenso, i vari Isner e Sock sono stati tra i più convinti rappresentanti del partito dei contestatori, sdegnati per l’eccessiva (?) velocità dei campi.

V come VIVIANI. Maria Vittoria, iscritta al tabellone femminile junior e diventata suo malgrado, come dicono i giovani, “virale”. Dopo aver perso il primo set, ha gettato la palla colpendo involontariamente un raccattapalle, ed è stata esclusa dal torneo. Il popolo del web, sempre presente senza richiesta in questi casi e generalmente composto da individui che per partita di tennis al massimo intendono quella tra Fantozzi e Filini, si è subito diviso in due fazioni: gli innocentisti del “poverina, giudici cattivoni” ed i colpevolisti al grido di “noi italiani ci facciamo sempre riconoscere” (naturalmente condendo il tutto con insulti variopinti nei confronti delle parti in causa). In questo caso io scelgo come soluzione la mediocrità, sperando che sia vagamente aurea. E’ vero che c’è stato un gesto di stizza evitabile, è altrettanto vero che ha subito chiesto scusa e che altri personaggi celebri, in circostanze simili o più gravi, sono stati a malapena sfiorati dal buffetto di un warning. Sono certo che la ragazza, seguita da Maria Elena Camerin, si troverà a vivere momenti assai più importanti di un anonimo primo turno di un torneo junior che non passerà alla storia. E sono altrettanto certo che, in una situazione analoga, anziché scagliare la palla in direzione casuale, sceglierà di addentarsi il polsino.

W come WILLIAMS. Finale in famiglia, altro passo di Serena verso vette irraggiungibili di immortalità tennistica. Ma meravigliosa l'esultanza di Venus dopo l'ultimo punto della semifinale con Coco Vandeweghe. Travolgente, contagiosa, quasi infantile, a dispetto della carta d'identità di una donna quasi incredula per un risultato difficilmente pronosticabile.

Z come ZVEREV. Il serve&volley è vivo e lotta insieme a noi. Dato per finito (per i detrattori mai cominciato), il buon Misha, forse anche grazie alla spinta emotiva del confronto con il fratello predestinato (i crampi al quinto set a vent’anni… ahi ahi, Sacha, metti su un po' di muscoli, ricordo una roba del genere solo con Gasquet a New York), risorge dalle ceneri della classifica numero 1067 – 9 marzo 2015, eh, mica da junior – e dimostra che, sì, in determinate condizioni un altro mondo è davvero possibile. Recupera due set a Isner e, negli ottavi, manda a casa il numero uno del mondo, quell’Andy Murray che se lo è trovato per più di cento volte a rete e che in quattro set non è stato capace di abbozzare una tattica alternativa. Che fosse lievemente appagato lo si era intuito dalle dichiarazioni del dopo partita, e infatti si è consegnato serenamente a Federer nei quarti, ma che spettacolo!  

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