Marco Caldara - 03 January 2019

THE SAGA OF THE TREVISAN FAMILY

Matteo è stato n.1 del mondo juniors, spaccava la palla, ma a 29 anni la carriera pro è già un ricordo e ora fa il maestro tra Pistoia e Firenze. Martina, enfant prodige, ha abbandonato il tennis per quattro anni a causa di problemi personali e in famiglia. Ora è tornata con grande coraggio. Con la consapevolezza che la vita non gira intorno a un match di tennis

Saranno i trent’anni all’orizzonte o quello scricciolo dagli occhi grandi di nome Emma, che da quando lo scorso febbraio è entrata nella sua vita ha cambiato ogni priorità, ma Matteo Trevisan giura che non c’è traccia di ferite aperte. Da quel 28 maggio del 2007, quando il trionfo al Trofeo Bonfiglio portò il toscano al numero uno della classifica mondiale juniores, è passata quasi una dozzina d’anni, nei quali la sua carriera ha fatto in tempo a iniziare e finire, lasciando più rimpianti che ricordi. Sembrava che a quel cognome, dovuto alle origini friulane di papà Claudio, ex calciatore, dovesse essere affidata una buona fetta del futuro del nostro tennis, perché oltre a Matteo a far sognare in grande gli appassionati c’era anche la sorella Martina, di quattro anni più giovane, mancina e campionessa nel bruciare le tappe. Invece, il futuro ha raccontato una storia diversa. Quella di Martina ha ancora delle pagine vuote, perché dopo essere stata lontana dal circuito per quattro anni e mezzo è tornata e ha ricostruito ambizioni di un certo spessore, mentre Matteo ha detto basta già da un po’. Per sempre. Oggi, il suo nome è ai primissimi posti della lista dei campioni mancati del tennis azzurro, perché i mezzi erano molto, molto importanti. Rileggendo una vecchia intervista è impossibile non soffermarsi su una frase, che serve a capire quali fossero i progetti dell’epoca: «Mi piacerebbe vincere un torneo dello Slam – diceva un giovane Matteo –, magari lo US Open. Ma soprattutto vorrei riuscire a tirare fuori il meglio di me». Non ha fatto né l’una né l’altra. Alla voce Ranking la sua scheda sul sito ATP recita Inactive e la sua miglior classifica di sempre è il numero 267, datato ottobre 2010, lontano chilometri dalle aspettative che aveva da ragazzo, alimentate da un drittone che faceva scoppiare la palla, ma che sono scadute più in fretta del previsto. L’ultima partita internazionale risale al Futures di Piombino del 2017, l’ultimo titolo nello stesso torneo, dodici mesi prima. Non si allenava praticamente più, perché l’idea di fare il tennista l’aveva già messa via, ma per una settimana quel fisico spesso nemico l’ha lasciato in pace e tanto è bastato per stendere tutti. Tuttavia, è stata una parentesi di una settimana: quel ragazzo, che secondo molti doveva diventare un Top 10, oggi fa il maestro di tennis, fra Firenze e Pistoia. Una differenza tanto marcata che poteva lasciare cicatrici indelebili, invece Trevisan parla con la libertà di chi il passato l’ha chiuso a chiave nel cassetto e ha cambiato capitolo del proprio percorso. La sua partita col tennis l’ha persa, ma nella vita c’è altro. Spesso si commette l’errore di dimenticare l’uomo che sta dietro al tennista ed è per questo che, nel Trevisan-pensiero, non ha senso rimpiangere il passato. «Se mi guardo indietro – racconta dai tavolini di un hotel di Vigevano, dove è in trasferta col suo Tennis Club Prato per un incontro del campionato di Serie A1 – comunque sono contento di ciò che ho fatto. Certo, sarebbe potuta andare diversamente, ma la vita va avanti. La forza di una persona è anche quella di saper cambiare strada, con serenità». La stessa che lo aiuta a riguardare il film della sua carriera senza rancore.

Matteo non ha intenzione di puntare il dito contro nessuno. Lo precisa due, tre, quattro volte. Ma resta evidente che a livello di gestione dell’atleta qualcosa non ha funzionato come poteva. O doveva. Il passaggio chiave di tutta la storia, ripercorrendola oggi, appare piuttosto chiaro: si torna al 2008, il suo primo vero anno fra i professionisti, quando faceva base al Centro Tecnico Federale di Tirrenia. Fino a quel momento si era allenato con Renzo Furlan e Cristian Brandi, trovando l’alchimia giusta per far funzionare tutto. Le vittorie arrivavano, il suo tennis cresceva, il fisico massiccio era un vantaggio e non una zavorra, e certe aspettative erano più che giustificate. «Avevo un’enorme fiducia nei confronti di Furlan e Brandi, ci trovavamo a meraviglia. Mi avevano aiutato molto nella crescita personale, mettendo ordine nel mio tennis e nella mia vita. Renzo è stata una persona importantissima: qualsiasi cosa dicesse era oro per me. Lavoravamo bene, con serenità, e in quel momento credevo davvero di poter diventare un ottimo giocatore». Tuttavia, a fine 2007, la struttura del Centro Tecnico ha subito delle modifiche: Brandi se n’è andato, Furlan ha cambiato ruolo e Trevisan è stato affidato al nuovo arrivato Eduardo Infantino, giunto dall’Argentina a dar man forte ai progetti federali, dopo una lunga esperienza maturata con vari giocatori di altissimo livello. «La separazione forzata da Renzo è una cosa che non mi è mai andata giù e lì c’è stato il primo momento difficile, che ha iniziato a sgretolare tante certezze che mi ero costruito». Il motivo è l’incompatibilità personale, ancor prima che tecnica, che non ha mai permesso al rapporto con Infantino di sbocciare. «Era sicuramente un ottimo coach, ma vivevamo su due mondi completamente diversi. Trovarmi di fronte, da un momento all’altro, una persona con un carattere e delle visioni opposte alle mie si è rivelato un problema». Oltre alle differenze caratteriali, a complicare ulteriormente il percorso si è aggiunta anche una brutta forma di mononucleosi. «Da parte sua non ho mai percepito serenità. Eravamo sempre alla rincorsa di quei due giorni nei quali mi sentivo meglio». Risultato: un 2008 da appena 13 tornei, solo otto partite vinte, ma soprattutto alcune voci – che circolano ancora a dieci anni di distanza – che hanno inquinato l’ambiente: la sensazione che Matteo non fosse il più assiduo lavoratore del mondo. «Come è possibile che di colpo fossi diventato uno che non si voleva allenare, un brocco, uno che rispondeva male, che pensava di essere già arrivato, uno str***o e tante altre cose? Ne ho sentite così tante che ho iniziato a pensare che fossero vere. Ho passato dei momenti brutti, avevo pur sempre 19 anni. Magari fossi stato un po’ più stupido mi sarei fatto meno problemi». È una pecca del suo carattere: da persona riflessiva ha sempre dato troppa importanza all’opinione della gente. «Poi, in una circostanza come quella che si era creata, in una stagione così difficile, forse anche il mio approccio era un pochino cambiato, ma semplicemente con Infantino non mi sono mai trovato. Mi metteva tensione anche solo farci colazione al mattino. Però come potevo io, Matteo Trevisan di 19 anni, andare a dire che non mi andava bene uno come lui? Non mi sono mai permesso. Tuttavia, nel tennis l’allenatore deve diventare un amico, una persona di cui il giocatore si fida ciecamente. Se non si crea questa empatia, è una lotta continua. In quel passaggio cruciale della mia vita tennistica, nel quale dal punto di vista motivazionale ero al top, mi sono mancate le certezze necessarie. Non posso attribuire tutte le colpe a quel periodo, perché è durato meno di due anni, ma si parla sempre di quel fatidico treno. Non è che io ci creda molto, ma penso che qualsiasi cosa, se presa nel momento giusto, possa risultare più semplice».

Chiusa la difficile esperienza sotto la guida di Infantino, nell’estate del 2009 Trevisan trova casa a Firenze, con coach Fabrizio Fanucci, storica guida di Filippo Volandri, uno che sulle potenzialità di chi aveva di fronte ha sempre avuto le idee molto chiare. Una volta disse che, dopo Panatta, fra i tennisti italiani certe cose le aveva viste fare solo a Matteo. Una decina d’anni dopo, fresco di nuovo incarico alla neonata Rome Tennis Academy, conferma senza pensarci un secondo. «Aveva e ha tutt’ora – dice Fanucci – un modo di colpire la palla che difficilmente si vede. In Italia devo ancora trovarne uno simile. Però l’ha dimostrato per poco tempo. All’inizio sembrava che la possibilità di allenarsi a fianco di un professionista come Volandri potesse essere determinante, invece non è durato granché». In effetti l’avvio della loro collaborazione era stato incoraggiante: dopo una buona preparazione, Trevisan iniziò il 2010 col piede giusto, arrivando in finale a Caltanissetta, l’unica in carriera a livello Challenger. Trovò una discreta continuità e di conseguenza anche il best ranking, che gli consegnò un posto nelle qualificazioni dell’Australian Open del gennaio successivo. «Con Fabrizio mi trovavo bene e non ero più nell’occhio del ciclone. Era dai 18 anni che mi sentivo dire in continuazione che dovevo arrivare e vedevo l’accesso nelle qualificazioni di uno Slam come un punto di partenza. Nella mia testa sentivo di essere pronto per lo step che mi avrebbe portato in alto, ma era un film mentale che non ho saputo reggere». È finita che le prime due partite del 2011 le ha perse nonostante un set e un break di vantaggio, senza un vero perché, ed è crollato. «Non sono stato bravo a gestire il momento. Da lì in poi, psicologicamente, ho avuto un tracollo, ed è arrivata un’altra stagione da buttare». Eppure, in uno sport in cui si perde praticamente ogni settimana, due sconfitte dovrebbero essere un po’ poco per lasciarsi andare. «Mi ero creato enormi aspettative senza lasciare una minima possibilità che le cose potessero andare diversamente. È stata colpa mia: a un certo punto, nella vita, bisogna prendersi le proprie responsabilità. Non dico che quell’anno mi abbia segnato, ma da quel momento la mia carriera è sempre stata un saliscendi». Fanucci conferma. «Da quando Matteo si è bloccato, è stato veramente difficile convincerlo nuovamente che poteva diventare un giocatore professionista. E fisicamente era ingestibile: appena provavamo a fare qualcosa in più, si faceva male. Oggi, quando lo incontro, lo saluto dicendogli meno quattro milioni, il mancato incasso della carriera che avrebbe potuto avere. La sua storia mi è rimasta dentro: ogni tanto mi chiedo se non ce l’ha fatta per colpa sua, mia, di altri fattori. È un peccato, perché è un bravissimo ragazzo, ma quando non prendi il treno giusto, va così. E lui non ha avuto l’accortezza o la volontà di continuare a fare certe cose». Questo è un altro passaggio chiave della storia. Quando Matteo era pronto psicologicamente e lavorava nel modo giusto, gli è mancata la serenità. Quando si è rilassato e, iniziando a giocare solo per se stesso, ha ritrovato la serenità, non aveva più le altre componenti. C’era il tempo materiale per recuperare la strada persa, ma non (più) la condizione mentale, il terreno fertile per farcela. «Da un certo punto in poi – ammette – non ci ho più creduto fino in fondo e non sono stato il più attento dei professionisti. Avendo davanti un esempio come Volandri, mi sono reso conto che su tanti aspetti non ero preciso come lui. Non sono mai stato uno da riso in bianco e bresaola, una delle mie pecche. Dopo i vent’anni sarei potuto essere più accorto nelle scelte, ma il treno ormai era passato, quello che forse non mi avrebbe portato nei primi 10 come alcuni sostenevano, ma sicuramente mi avrebbe permesso di provarci con la giusta mentalità». Anche la storia dei continui infortuni merita un approfondimento, perché nel tennis nulla succede per caso. «Ho sempre somatizzato tutto, non sono mai riuscito a far entrare i problemi da un orecchio e farli uscire dall’altro. Mi facevo male spesso perché dentro di me non stavo bene. Quando mentalmente le cose non funzionano, i problemi fisici arrivano di conseguenza. E fortuna che il professor Parra mi ha rimesso in sesto un sacco di volte».

Andando avanti con la storia, torna in mente una scena nella Players’ Lounge degli Internazionali di Bergamo del 2014. Matteo incrocia Ricardas Berankis, compagno di tanti tornei e avversario di una semifinale allo US Open juniores. Il lituano, anche lui numero uno al mondo under 18 nel 2007, non è esattamente mister loquacità, ma per Trevisan una frase l’ha tirata fuori: «It’s been a long time». Sei parole che dicono tutto e che, in senso figurato, potremmo tradurre in «ma dove diavolo eri finito?». Domanda legittima, anche perché il tennis di Matteo era sempre lo stesso dei tempi d’oro. In quel Challenger vinse cinque partite, partendo dalle qualificazioni e arrivando nei quarti di finale, per poi fare a pallate per due ore con Simone Bolelli, davanti a 2.000 spettatori incantati dalla qualità di una partita degna di un palcoscenico diverso. Sembrava la base di una nuova ripartenza, invece è rimasto uno degli ultimissimi squilli. A proposito di Berankis: nemmeno lui è diventato un fenomeno, ma si è costruito una carriera più che dignitosa, arrivando fino al numero 50 ATP e incassando oltre due milioni e mezzo di dollari di soli montepremi. Vale lo stesso per Thomas Fabbiano, che da juniores era diventato una sorta di gemello di Matteo, insieme all’altro desaparecido Daniel Lopez Cassaccia. Coetanei, Fabbiano e Trevisan erano entrambi nella top 10 juniores, ma su chi fosse il più forte non aveva dubbi nessuno. Il futuro ha smentito tutti. Ma nemmeno l’aver visto arrivare in alto tanti ragazzi che batteva regolarmente riesce a smuovere Matteo. «Non sono il tipo che rosica. Anzi, sono contento per loro. Quando Thomas ottiene qualche risultato importante, sono il primo a mandargli un sms. Lui ci ha sempre creduto tanto, probabilmente più di me». Mentre il pugliese ha fatto strada e gioca i tornei del Grand Slam, Matteo è sempre stato in quella terra di mezzo tra Futures e Challenger che accoglie coloro che hanno alcune delle qualità necessarie per arrivare in alto, ma non ci riescono perché gliene mancano altrettante. Quando giocava a livello ITF, chiunque si sarebbe accorto che quel ragazzo con la barba e i capelli raccolti in un codino, look ora abbandonato, aveva qualcosa di diverso dagli altri. E non solo perché in tribuna al posto dell’allenatore si portava spesso e volentieri un suo grande amico, Duccio, ma perché dava l’impressione di fare cose difficili senza la minima fatica. Eppure, dopo quel 2011 iniziato con enormi ambizioni, non è più riuscito a superare il muro dei tornei Futures. «Non è giusto dire che avevo qualcosa in più degli altri. Magari ero migliore sotto alcuni aspetti, ma peggiore in tanti altri. Il gioco in sé conta fino a un certo punto. Alcune settimane davo tantissimo, altre molto meno e nel tennis serve continuità. Non basta avere il motore di una Ferrari se alcuni ingranaggi sono di una Panda. Io non mi sapevo gestire da Ferrari o non credevo davvero di essere una Ferrari». È tutto vero: il tennista deve essere una macchina, 24 ore su 24, dodici mesi all’anno per oltre dieci anni: «È una vita logorante. Sei come una piccola gazzella in un recinto con tigri e leoni: emergere è davvero difficile, un’autentica lotta contro se stessi e l’avversario, il fisico, i soldi, un sacco di cose. Specie se i risultati che puoi ottenere non arrivano mai».

Una volta capito che spingersi lassù dove gli indicavano da ragazzino non era più possibile, e dovendo fare i conti col problema economico che preoccupa chiunque non riesca a sfondare, Matteo si è lentamente avvicinato all’addio all’attività internazionale. Il braccio ha detto basta nell’agosto del 2017, la testa almeno un annetto prima. «Non sentivo più l’obbligo di diventare forte e anche i soldi hanno recitato un ruolo importante. Fino a vent’anni c’era la FIT a darmi una mano, poi mi ha aiutato mia mamma, ma se uno vuole davvero emergere serve una programmazione di un certo tipo, che costa parecchio. Non avendo una classifica in grado di offrirmi delle garanzie, mi sono sempre trovato a dover fare calcoli, a giocare tornei Open e gare a squadre, per raccogliere qualche soldo extra». Mettici anche che viaggiare iniziava a pesare e Matteo è arrivato a chiedersi se ne valesse ancora la pena, maturando pian piano la scelta di mollare. «Ero stanco della frenesia di dover iniziare ogni giornata alla caccia di chissà quale obiettivo. Volevo alzarmi felice di ciò che sarei andato a fare quel giorno». La ricetta? Iniziare a insegnare. A Firenze, dove al Match Ball allena Diletta Cherubini, ragazzina classe 2002 che promette molto bene, e a Pistoia, dove si occupa dei ragazzi dell’agonistica. Oggi la sua vita è quella: gli piace e presto seguirà il corso da maestro nazionale, per approfondire il suo percorso di formazione. Ma il tennis giocato c’è ancora, anche se i Masters 1000 che potevano essere si sono trasformati in tornei Open in giro per la Toscana: Sporting Club Montecatini, Tennis Club Marina di Massa, Cooperativa Tennis Livorno, Tennis Club Pistoia, Associazione Tennis Bibbiena e altri ancora. Tanti, ben quindici, vinti solo nel 2017, giusto per ricordare le sue qualità: «Ma gli Open non sono un ripiego perché non ho bisogno di pensare sempre al mio passato. Li gioco e mi diverto, senza grandi pretese». L’ultimo contatto col tennis vero, è stato lo scorso maggio al Foro Italico, per le pre-qualificazioni degli Internazionali d’Italia. Ha giocato sul Pietrangeli, in diretta tv su Supertennis. Stimoli? Nessuno. Una gita con le racchette, come a ribadire che i pensieri su cosa poteva essere preferisce lasciarli ad altri. Lui guarda al presente, senza amarezza. «Dopotutto nel tennis se va bene puoi giocare fino a 35 anni, poi la vita ha altre fasi. Non sempre tutto va secondo i piani ma non mi sento un fallito perché non sono arrivato. Lo sarei se continuassi a pensare al mio passato».

Se nel caso di Matteo, sportivamente parlando, bisogna per forza guardare indietro, con la sorella Martina si può invece sbirciare anche nel presente, che le ha dato una buona stagione, iniziata in ritardo a causa della rottura di un dito della mano e chiusa da numero 187 WTA. Per la prima volta dal 2013 non è arrivato alcun titolo, ma la bacheca vuota è dovuta alla scelta – saggia – di dare priorità ai tornei più importanti e mettere spesso il naso a livello WTA, per confrontarsi col tennis che conta. «Rispetto al 2017 – analizza dalla Terrazza della Rinascente di Milano, col solito sorriso e col Duomo a portata di sguardo – ho giocato a un livello più alto e battuto giocatrici più forti. Potevo fare meglio, ma sono contenta. Ma non voglio certo fermarmi qui, anche se dopo quello che ho passato, l’aver raggiunto i tornei del Grand Slam (ha sfiorato la qualificazione sia a Parigi sia a Flushing Meadows, N.d.a.) è un grande traguardo. Se mi guardo indietro, mi accorgo che non era così facile nemmeno arrivare fino a qui». Eccolo, immediatamente, il passato che torna a galla, si intreccia col presente e in parte anche con la storia del fratello Matteo. Ma c’è da fare una distinzione: se per lui l’epicentro del problema era il tennis, che poi ha avuto effetti negativi anche in altri aspetti della sua vita, per lei è stato l’opposto. La sua baby carriera stava andando a meraviglia, a suon di tappe bruciate: nel 2009, ancora prima di compiere 16 anni, Martina giocava gli Slam juniores, vinceva con regolarità fra le professioniste e tutti andavano all-in su quel dritto mancino che lasciava a bocca aperta. Ma c’era qualcosa, più importante dei risultati, che pian piano ha smesso di funzionare. «Anche se all’apparenza sembrava tutto perfetto, dentro di me iniziavo a non sentirmi bene. Non riuscivo più a gestire ciò che avevo intorno: c’erano le pressioni dovute al mio rendimento, che significava dover fare questo e quel torneo, e in quel periodo, all’interno della mia famiglia, ci sono stati dei problemi». E, a quell’età, una scarsa serenità in famiglia te la porti appresso ogni volta che devi allenarti o giocare una partita. Martina sentiva che era il momento di calmarsi e rallentare i ritmi, invece intorno a lei viaggiava tutto ad alta velocità e nessuno si accorgeva del suo malessere. «Se una persona avverte il sostegno della famiglia, magari riesce a superare in fretta i momenti di difficoltà, mentre io, in quel periodo adolescenziale in cui una ragazza ha tante insicurezze, mi sono sentita sola». A casa c’era solo lei, perché Matteo abitava a Tirrenia (prima) e Firenze (poi), quindi certe situazioni le viveva meno. E poi di preoccupazioni aveva già le sue. «Il tennis mi portava a stare in un ambiente nel quale non ero più a mio agio – continua Martina –. Ingenuamente, ho continuato a giocare fino ad arrivare al punto in cui mi sono smarrita completamente, ammalandomi di anoressia. Era la mia risposta al malessere provocato da tutto il resto. Lì ho deciso di allontanarmi dal tennis, per disintossicarmi da quell’ambiente».

All’inizio mollare la racchetta è stata una liberazione. Martina ha iniziato a fare quella che i tennisti chiamano una vita normale: uscire con gli amici, divertirsi, avere i week-end liberi e soprattutto non dover programmare le proprie giornate col calendario dei tornei in mano. «Ho iniziato a frequentare la scuola al mattino, al pomeriggio andavo in palestra a prendere lezioni di zumba e il sabato tornavo alle tre di notte come le altre ragazze della mia età». Naturalmente è andata anche in un centro per curare l’anoressia e ha iniziato un percorso con una psicologa: «Senza di lei non ce l’avrei fatta, mi ha salvato. È stata un sostegno al quale appoggiarmi ogni volta che ne avevo bisogno». Col tempo, grazie al suo aiuto, le difficoltà si sono fatte meno pressanti, la situazione si è stabilizzata e il tennis è tornato a bussare alla sua porta. Ogni tanto Martina giochicchiava a Pontedera, insieme a un paio di ragazzi. Si divertiva e chiunque la vedesse, la esortava a riprendere. «Mi chiedevano cosa fosse successo e ammetto che mi dava un po’ noia. Non riuscivano a comprendere che si trattava di qualcosa di delicato e soprattutto non tutti avevano la sensibilità di capire che non ne volevo parlare. Sentivo che il tennis non era un capitolo chiuso, ma dopo l’esperienza passata, ho deciso che Martina avrebbe ripreso solo quando Martina sarebbe stata felice di farlo». Il bisogno fisico della competizione, benzina di tutti gli sportivi, non lo sentiva, perché stava già lottando con la volontà di stare meglio come persona. «Avevo altri tipi di obiettivi e sentivo che per riprendere col tennis dovevo prima risolvere i miei problemi interiori». Nel frattempo, terminato il liceo e compreso dopo poche settimane di frequentazione che l’università non faceva per lei, Martina ha iniziato a lavorare, come maestra al Circolo Tennis Pontedera. «Insegnavo un po’ a tutti, bambini, ragazzi, adulti e mi piaceva un sacco. Lavoravo volentieri fino a tardi e tornavo sempre a casa col sorriso. Ma dopo un annetto ho iniziato a chiedermi se fosse davvero quella la vita che volevo. Credo che certe domande siano arrivate quando dentro di me le cose stavano cambiando e iniziavo davvero a sentirmi meglio». Lì ha capito che era giunta l’ora di riprovarci, che la partita col tennis poteva riprendere. Per farsi coraggio l’ha gridato al mondo con un post su Facebook, datato 25 febbraio 2014. Le è bastata una frase: Let’s start a new beginning. Dopotutto, significava sconvolgere la sua vita un’altra volta. «Mi ero creata un equilibrio che mi piaceva, riprendere a giocare voleva dire romperlo». Una scelta coraggiosa.

Dall’arrivederci al tennis al suo ritorno in campo da atleta sono passati oltre quattro anni, un’eternità nel mondo della racchetta. Si va dal gennaio 2010, data dell’ultima partita internazionale in un ITF junior in Repubblica Ceca, al marzo 2014, quando Martina chiama Giancarlo Palumbo, responsabile organizzativo del Centro Tecnico Federale di Tirrenia. «Gli dissi che avevo intenzione di riprovarci e che mi serviva un appoggio dove allenarmi: furono ben contenti di accogliermi. Ripresi cercando di fare le cose con calma, visto che il mio corpo aveva già subito tanti cambiamenti importanti. All’inizio le altre ragazze che si allenavano a Tirrenia si chiedevano chi fossi, da dove saltavo fuori, poi col tempo si è creato un grande rapporto con tutte». Dopo qualche settimana di allenamenti al mattino e di lavoro al pomeriggio, a metà maggio è arrivato il primo torneo della sua nuova carriera, un ITF da 10.000 dollari di montepremi, a Caserta. Partita dalle qualificazioni, Martina si è spinta fino ai quarti di finale. Tanto le è bastato per trovare le ultime conferme di cui aveva bisogno. «La persona era diversa, ma la giocatrice era sempre la stessa. La ripartenza non era scontata, potevo anche rendermi conto che i tornei non facevano più per me. Invece è stato l’opposto». Ha subito capito che poteva giocare ancora ad alti livelli e quattro mesi dopo aveva già in tasca un paio di titoli. Da allora non si è più fermata. Pur lottando con qualche intoppo fisico ha scalato la classifica fino al numero 144, guadagnandosi anche un posto nella nazionale di Fed Cup; e mentre il suo percorso sportivo si arricchiva di soddisfazioni, di pari passo quello umano ha ritrovato forma e obiettivi. Qualche difficoltà c’è ancora, ma oggi Martina guarda avanti con fiducia. «Se mi guardo indietro vedo un periodo intenso, difficile. Le ferite si chiudono, ma le cicatrici restano. Capita che mi faccia ancora delle domande, penso a come sarebbe andata se avessi fatto questo o quello, o a dove sarei potuta arrivare se non avessi smesso per anni; però mi rispondo che se ho preso certe decisioni è perché in quel momento era ciò che sentivo di fare». Dopo ciò che ha passato, non c’è dunque spazio per i rimpianti. Anzi, in qualche modo le difficoltà l’hanno resa più forte. «L’esperienza ti fa crescere. Non tutte le giocatrici hanno la possibilità di vedere la vita che c’è fuori dal campo. Oggi mi rendo conto che perdere una partita di tennis non è la fine del mondo. Ti girano le scatole, ma la vita è un’altra cosa. Credo di essere molto forte quando bisogna rialzarsi dopo una batosta e questo è sicuramente dovuto al mio percorso extra sportivo».

Nella sua vita, il tennis si è presentato con vari volti. Quello genuino degli inizi, quando era pura gioia, quello buio dei periodi difficili, quando non la faceva star bene. E quello attuale, animato dalla riscoperta del piacere di giocare: «Il tennis mi fa sentire viva. Quando colpisco la palla sto bene, in campo sono nel mio habitat. Ora arriva la fase più difficile di una carriera, compiere quel salto che serve per arrivare fra le prime 100 giocatrici del mondo. Tutte giochiamo bene, le partite si vincono in pochissimi punti e bisogna stare attente a ogni singolo dettaglio. Mi aspetta una bella battaglia, ma non ho alcuna intenzione di tirarmi indietro. E davanti a me vedo ancora tanto tempo per provarci: ho già sconvolto più volte la mia vita e non ci penso proprio a farlo un’altra volta». Matteo – e non è l’unico – scommette sulle potenzialità da top 100 della sorella, che può permettersi di guardare avanti con la tranquillità di chi sa di aver già vinto la partita più importante: «Per carattere tendo sempre a guardare cosa non va, invece dovrei imparare a essere fiera di me stessa e di ciò che ho fatto. Non ho solo ripreso a giocare, che è già tantissimo, ma mi sono anche rimessa in piedi, non solo come tennista, ma soprattutto come persona». In un match dove non c’erano in palio punti WTA, soldi o fama, ma qualcosa di molto più prezioso.

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