Marco Caldara - 05 July 2016

L'esplorazione del...Pellegrino

Mentre l’Italia perdeva a Pesaro con l’Argentina, Andrea Pellegrino conquistava il suo primo titolo Futures. Ex stellina del Torneo Avvenire, sta vivendo un ottimo 2016 e non ha peli sulla lingua. "La storia del fallimento di Tirrenia? Una cazzata".

Bjorn Borg, Ivan Lendl, Stefan Edberg, Goran Ivanisevic, Juan Martin Del Potro e… Andrea Pellegrino. Scorrendo l’albo d’oro del prestigioso Torneo Avvenire di Milano, in mezzo a tanti sedicenni poi diventate stelle mondiali della racchetta, c’è anche il nome dell’azzurro. Pugliese classe 1997, ha vinto il titolo nel 2013, poi era un po’ sparito dai radar, ma ora è tornato a farsi notare e sembra pronto per salire sempre più in alto. Il recente week-end di Coppa Davis ha lasciato un chiaro messaggio: urgono ricambi, e forse non è un caso che il suo primo titolo fra i professionisti sia arrivato proprio domenica, a poche ore dal k.o. decisivo di Fabio Fognini contro Federico Delbonis. Mentre nella sala stampa del TC Baratoff di Pesaro si spendevano righe e righe sulla necessità di nomi nuovi, il giovane di Bisceglie ha messo le mani sul Futures di Casinalbo (Modena), confermando i passi avanti delle ultime settimane. In casa FIT puntano forte su di lui, gli hanno messo alle calcagna un tecnico preparato come Gabrio Castrichella (che in passato ha lavorato con Gaio e Giannessi) e la tabella di marcia può essere soddisfatta, perché i risultati sono dovuti a progressi visibili a occhio nudo. Oggi è numero 692 ATP, col successo a Modena scalerà ancora un centinaio di posizioni, ma il campo dice già ben altro. Il fisico è interessante, la palla viaggia, il rovescio fa sempre più male e l’atteggiamento piace. Andrea sembra un ragazzo serio, dalle idee chiare, che ride poco e si lascia ascoltare. Parla lentamente, pesa ogni parola che dice e soprattutto trasmette grandissima determinazione. Magari non basterà per raggiungere uno dei cinque su in alto, ma già far compagnia a Pozzi e Fabbiano fra i top-100 pugliesi nella storia del tennis nostrano sarebbe un gran risultato. 

La prima domanda è sempre la più facile. Chi è Andrea Pellegrino?
Ho iniziato a giocare con mio padre, che fa il maestro di tennis e il preparatore atletico, a Bisceglie, la mia città. Finite le scuole medie mi sono trasferito all’Accademia di Bari, poi dopo tre anni sono passato a Tirrenia, al Centro Tecnico della Fit. Mi alleno con Gabrio Castrichella. Fuori dal campo sono una persona abbastanza tranquilla, mi piace stare con gli amici, uscire a cena, nulla di che. Mi piace molto giocare a calcio, quando posso lo faccio volentieri.

Dentro al campo, come ti descriveresti?
Un attaccante da fondo campo, dritto e rovescio sono due colpi abbastanza equilibrati, mi piace spingere. Dovrei cercare di prendere più spesso la rete, ed è quello su cui stiamo lavorando di più, insieme al servizio. Stiamo facendo tanti passettini in proiezione futura. Infatti non stiamo badando molto ai risultati nei tornei Futures, ma sto lavorando per arrivare nel giro di 2 o 3 anni a essere un giocatore completo che possa giocare a livelli più alti. Penso che se uno lavora come si deve i risultati siano solo una conseguenza. A 19 anni credo sia sbagliato avere come unico obiettivo il risultato. Magari arriva a livello Futures, ma poi quando si sale di categoria si rischia di non essere completi e quindi meno competitivi.

Com’è la vita a Tirrenia? Secondo molti il Centro Tecnico è un fallimento, perché non ha prodotto alcun top-100. L’opinione di chi lo vive dall’interno?
Lo frequento a tempo pieno dal 2014 e mi trovo abbastanza bene, si lavora nel modo giusto, sono seguito come si deve. Il discorso del fallimento secondo me è una cazzata. È vero che non è uscito alcun top-100, ma Giannessi ci è arrivato a un passo, e Gaio si sta avvicinando. E poi ora ci sono tutti i più forti d’Italia di ogni annata, mentre prima non era proprio così. Comunque penso che se uno ha la voglia e i mezzi per arrivare ce la fa, indipendentemente dagli altri. Dipende da te stesso, dalla voglia di arrivare, di lavorare, da quanto uno ci crede. Tirrenia offre tante possibilità: ci sono tecnici bravi, preparatori, fisioterapisti. Abbiamo a disposizione tutto ciò che serve. Tanti non ci sono arrivati perché magari, pur avendo le qualità, non avevano questo obiettivo come unica fissazione.

Tu ce l’hai?
Sì, altrimenti non farei questa vita. Sarebbe solo una perdita di tempo.

Oltre a Castrichella, come membro del progetto “over 18” capita che ti seguano anche Umberto Rianna e Giorgio Galimberti. E poi dietro c’è Infantino. Quattro voci diverse non sono troppe?
Con Galimberti non ho praticamente mai lavorato, ma capiterà. Mentre con Rianna mi trovo molto bene, lo reputo veramente bravo. Comunque non siamo più ragazzini, quindi sappiamo come affrontare una situazione simile. Secondo me sta nell’intelligenza della persona e del giocatore capire come prendere la parte migliore dei consigli di ognuno. Non è che tutto ciò che uno dice vada preso. Qualcuno pensa che troppe figure facciamo male, mentre io personalmente mi trovo bene, la cosa non mi dà problemi. Penso che ognuno di loro, anche se non tutti la pensano allo stesso modo, abbia qualcosa da darmi.

Dormire a Tirrenia, allenarsi a Tirrenia, uscire a Tirrenia. Non è noioso?
Può diventarlo, in certi momenti capita di annoiarsi, però è come un lavoro, ci fai l’abitudine. Sai che sei li per un determinato obiettivo, per allenarti e crescere. Bisogna farlo e lo si fa.

Il 2016 è il tuo primo anno senza tornei juniores. Cosa resta di certe esperienze?
Sono ottime esperienze, divertenti, specialmente i tornei del Grande Slam under 18, ma si impara molto di più giocando anche solamente un torneo Futures. È qui che si impara a giocare gli incontri, a gestire punti e situazioni. Magari si trova gente che tecnicamente gioca meno bene rispetto ai migliori junior, ma riesce a vincere con altre qualità. La cosa importante da portare a casa dai tornei junior è l’esperienza: stando con i professionisti di alto livello si più osservare e capire come lavorano. Li si va a vedere per capirne di più. Se uno invece prende uno Slam under 18 come una vacanza non serve a nulla. Certo, vincere un titolo è sempre bello, ma alla fine conta poco.

Sembra che più passa il tempo e più la testa, nel tennis, diventi fondamentale. Sei d’accordo? A che percentuale siamo arrivati?
Conta tantissimo, direi un 60%. Basta guardare la classifica: tolti i fenomeni, ci soni tanti esempi di giocatori arrivati a posizioni importantissime pur con qualità tecniche inferiori rispetto ad alti che non si sono mai avvicinati. Poi, una volta arrivati molto in alto, anche tecnica e fisico fanno la differenza.

La testa è l'aspetto più difficile da allenare?
Diciamo che è quello sul quale bisogna essere più predisposti.

Da inizio anno hai scalato circa 1.000 posizioni. Sembra ci sia stato un deciso salto di qualità...
I risultati sono arrivati perché ho fatto una buona preparazione e ho lavorato bene nei tornei di inizio anno. Però penso di dover fare ancora molto, posso crescere su tanti aspetti, limare le mie debolezze e i miei punti deboli, essere più convinto delle mie potenzialità. Ho ottenuto buonissimi risultati ma per le aspettative che ho vorrei fare ancora meglio. Migliorando sotto questi aspetti possono migliorare i risultati.

Si è parlato di te a maggio, quando hai raggiunto i quarti al Challenger di Roma Garden e battuto un top-100 come Zeballos. Cosa serve per stare stabilmente a quei livelli?
La continuità nel lavoro. I risultati non vengono per caso, ce li si guadagna fuori dal campo, in allenamento. Servono tanti sacrifici e tanto impegno, sempre. E poi la convinzione di poter arrivare in alto, e anche una personalità forte, fondamentale per compere con i professionisti di alto livello.

A personalità forte come sei messo?
Mi sento migliorato tantissimo rispetto al passato e anche all’inizio della stagione. Ma si può sempre fare meglio. Sicuramente vincere aiuta a migliorare e a vincere ancora, dà tanta fiducia, ma anche nelle vittorie bisogna stare attenti. Non bisogna rilassarsi, pensare di essere arrivati, e riprendere subito ad allenarsi al massimo, ad ascoltare le persone giuste e rispettare tutti gli avversari. È necessario saper gestire la situazione con equilibrio: non bisogna esaltarsi troppo dopo un successo, e nemmeno demoralizzarsi per le sconfitte. Il tennis è così: si gioca tutte le settimane, si vince, si perde, ma ogni giorno c’è una possibilità per rifarsi, nuove opportunità e nuovi avversari.

Si dice che la nuova generazione azzurra, di cui fai parte, non sia all’altezza dei migliori giocatori attuali. Cosa ne pensi?
Siamo ancora giovani, e non tutti sono fenomeni come Zverev che a 19 anni arrivano fra i primi 30 del mondo. Ognuno ha il suo percorso, bisogna dare il giusto tempo alle persone. Credo sia un’affermazione non vera perché non è provata, si parla di qualcosa che ancora deve succedere. Al momento come si fa a dare un giudizio? Può benissimo essere che a quei livelli non ci arriveremo mai, ma se ne riparlerà quando anche noi avremo l’età di Fognini, Seppi e gli altri. Prima di quel momento sono solo pareri.

Nel gruppetto di italiani delle classi ‘96/’97/’98, qualcuno dice in prospettiva Pellegrino è il migliore di tutti. Il diretto interessato che ne pensa?
Sicuramente penso di essere tra i più forti, ma non per presunzione, bensì dal punto di vista dei risultati che ho ottenuto rispetto ai miei coetanei. Sarei ipocrita a non pensarlo, non avrebbe senso fare questa professione se non pensassi di poter diventare il più forte. Il tennis non è uno sport di squadra, è uno sport individuale. Si compete per arrivare davanti agli altri, non dietro.

Sei pugliese, come Flavia Pennetta e Roberta Vinci, che hanno regalato all’Italia uno dei momenti migliori di sempre. Le vedi come un esempio o gli uomini si ispirano solo agli uomini e le donne solo alle donne?
È difficile paragonare il tennis maschile a quello femminile, ma Pennetta e Vinci possono essere un esempio a livello di professionalità: come hanno lavorato quotidianamente per anni, come hanno giocato tanti incontri nella loro carriera, fino a raggiungere un risultato meritatissimo. Penso che gran parte di quello che hanno fatto venga dalla professionalità, come la stessa Schiavone. Con grande lavoro e tanti sacrifici è arrivata a vincere il Roland Garros. C’è sempre qualcosa da imparare.

La Puglia ha avuto due top-100: Gianluca Pozzi e Thomas Fabbiano. Possono essere d’esempio? Il primo ancora fra i primi 100 a 36 anni, il secondo entrato dopo una lunghissima rincorsa…
Sicuramente. Conosco benissimo entrambi: con Gianluca mi sono allenato nel periodo in cui la mia base era a Bari, e malgrado non l’abbia mai visto giocare direi che i suoi risultati parlano per lui. È stato 40 al mondo facendo tutto da solo, praticamente senza allenatore, un grandissimo professionista. Thomas invece è un bravissimo ragazzo, una persona tranquilla, spero di poter arrivare anche io al suo livello. La sua storia è la dimostrazione del fatto che la gente tende a dare giudizi troppo affrettati. Un po’ come accaduto con Quinzi: prima ha vinto Wimbledon ed era un fenomeno, poi per qualche motivo ha giocato male negli ultimi due anni e la gente ha cambiato completamente opinione su di lui. Ognuno deve avere tempo per fare il proprio percorso, e spazio per esprimersi a dovere. Niente si ottiene subito e facilmente, ma se uno lavora bene e ha le qualità giuste prima o poi. Ci vuole più equilibrio nei giudizi, anche se quello che dice la gente conta molto poco.

Pellegrino sarà il terzo top-100 nella storia della Puglia?
Lo spero.

Quanto pensi ti serva per arrivare alla completa maturazione?
Uno non smette mai di migliorarsi, specialmente dal punto di vista mentale si cresce in continuazione, fino a quando si gioca, perché si acquisisce maggiore esperienza. E poi ora i risultati migliori si ottengono intorno ai 30 anni, lo vediamo tutti i giorni. Quindi non ho fretta, spero di continuare a crescere e arrivare all’inizio del prossimo anno con degli importanti miglioramenti e una classifica che mi permetta di giocare a buoni livelli.

Niente obiettivi a breve termine, ma guardiamo al lungo periodo: a fine carriera, quando ti volterai indietro, cosa ti piacerebbe trovare?
Ovviamente un giocatore spera di arrivare il più in alto possibile. È difficile che come obiettivo ci si ponga solo i primi 100, perché poi quando uno ci arriva vuole i 50, e così via. A meno che uno diventi numero uno e allora può bastare (ride, ndr), anche se sembra che ora Djokovic voglia vincere tutti i tornei del mondo. Il discorso non è uguale per tutti, ma non credo avrebbe senso giocare con l’obiettivo di arrivare nei primi 300. Non mi darebbe niente. Io penso di essere una persona obiettiva in quello che fa, se pensassi di non poter arrivare a un livello che mi permettesse di vivere col tennis, quindi nei primi 100, non farei questa vita.

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