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Lorenzo Cazzaniga
06 September 2017

Un po' Safin, un po' "Kaf". È Andrey Rublev.

Andrey Rublev, avversario di Rafael Nadal nei quarti di finale dello Us Open si racconta: “Non so nemmeno a che età ho cominciato, mi ispiro a Marat Safin e posso stare sei ore al giorno in campo a giocare”. Dotato di due fondamentali notevoli e un carattere molto deciso, punta a diventare il n.1 del mondo.
Ho visto per la prima volta Andrey Rublev in una bella domenica di maggio, al Bonaccossa di Milano. Era la finale del Trofeo Bonfiglio e l’amico Tullio Colangelo mi aveva parlato di questo grissino russo con un braccio veloce come pochi. Perse quell’incontro in un’oretta e un quarto contro il connazionale Roman Safiullin (ora ancora disperso nei piani bassi del ranking ATP, oltre il numero 350) ma era evidente chi avesse maggior talento.

L’ho ritrovato l’anno dopo sul centrale del Godò di Barcellona, nel bellissimo Real Club. Prese a pallate Fernando Verdasco che poi si lamentò non poco dell’atteggiamento sfrontato di questo ragazzino. Dopo aver vinto il primo set, si mise a fondocampo, braccia allargate, sguardo a cercare il pubblico. Un gesto che ricorda quando Cristiano Ronaldo segna un gol, fatto mai troppo apprezzato in Catalogna. Per sua fortuna, evitò di mostrare gli addominali, ancora acerbi.

L’anno dopo, ero seduto insieme a Gunter Bresnik, il coach di Dominic Thiem, al ristorante del fu torneo di Nizza; seduti accanto, Alexander Zverev e il suo fitness trainer, Jaz Green, strappato a Andy Murray. Parlammo anche di Rublev e Green fu piuttosto laconico: “Se in un anno non metti su nemmeno un chiletto di muscoli, semplicemente vuol dire che non stai lavorando”.

E infatti i risultati stentavano: vederlo in streaming perdere da Galovic a Vicenza e da Bega a Recanati, faceva pensare a un’indolenza che avrebbe superato solo sbarcando in fretta nei tornei più importanti. Perché Rublev è uno di quei talenti che sa alzare il livello di gioco in proporzione alla qualità del torneo e dell’avversario. Non è un caso che abbia faticato nei Challenger e sia esploso nel Tour maggiore.

L’ho rivisto alle qualificazioni di Wimbledon, a Roehampton, lo scorso luglio. L’ho avvicinato dopo il primo turno, chiedendogli un’intervista. Mi rispose onesto quanto educato: “Sono obbligato?, cercando una scappatoia da qualcosa che evidentemente non ama troppo affrontare: “Ci mancherebbe: se non ti va, dopo sette ore di tennis mi vado volentieri a bere un the”. Sorrise, mi chiede di seguirlo in palestra, dove lo aspettava mezz’ora di cyclette di defaticamento. Sarà stata la mia faccia perplessa ma aggiunse: “Ehi, tu non sei obbligato a farlo”. Ringraziai, divertito dall’ingenuità di questo ragazzo, tanto timido fuori dal campo, quanto invaso dai demoni quando deve lottare, capace di prendersela col mondo se qualcosa non gira come vorrebbe.

Ecco, nelle sue parole, come ha avvicinato il tennis, come è cresciuto, l’approdo in Spagna alla corte di Fernando Vincente e Galo Blanco. E gli obiettivi futuri che, guarda un po’, guardano verso la vetta.
IL PERSONAGGIO
«Il tennis mi è sempre piaciuto, fin da piccolo. Non posso nemmeno dire a che età ho realmente cominciato a giocare: mi sembra faccia parte della mia esistenza da sempre e davvero non riesco a immaginare la mia vita senza. Giocavo allo Spartak, dove andavano i miei genitori. Hanno fatto tanti sacrifici per mettermi sempre nelle migliori condizioni di allenarmi. Le altre famiglie passavano l’estate in vacanza? Noi no, sempre a Mosca, sempre a divertirci sul campo. Mosca è la mia città: una volta non vedevo l’ora di scappare via, adesso per me è la più bella del mondo, quella dove passerei il mio tempo libero. Peccato che pensare di allenarsi lì è praticamente impossibile: puoi giocare outdoor tre, quattro mesi all’anno, poi fa veramente troppo freddo.
Credo che la Russia abbia davanti a sé un buon futuro: oltre al sottoscritto ci sono anche Daniil Medvedev e Karen Khachanov, che conosco bene perché ci alleniamo nella stessa accademia in Spagna. Tutti abbiamo buone possibilità di diventare dei buoni giocatori. Quanto buoni? Beh, l’idea è quella di diventare il numero uno del mondo. Penso che il circuito sia pieno di giocatori che hanno questo obiettivo, anche se non sempre lo si vuole ammettere. Però ogni volta che scendi in campo lo fai per vincere, per migliorarti e per arrivare in cima. Poi è chiaro che la stragrande maggioranza di chi ha questo obiettivo sbaglia, ma sono ambizioso e voglio provarci con tutte le mie forze. In fondo, che male può fare?»
LA TECNICA
«Qualcuno dice che ricordo Yevgeny Kafelnikov per come colpisco la palla, per i miei movimenti, sia di rovescio sia di dritto (e in effetti c’è una certa somiglianza, che peraltro è il motivo per cui questo ragazzo affascina tecnicamente, pur non avendo ancora mostrato il tocco di palla dell’ex numero uno del mondo N.d.A.) e per me è un gran complimento, visto che lui è arrivato in cima al ranking ATP sia in singolare sia in doppio. Però a me piaceva di più Marat Safin, è lui il giocatore russo al quale mi sono ispirato maggiormente. Ed è anche vero che succede che in campo perda la pazienza come accadeva a lui: qualche parolina vola, qualche racchetta si spezza. Però sto migliorando sotto questo aspetto, anche perché a lui le racchette le regalavano, mentre a me, fin quando sarò 90 al mondo (ma lo sarà per poco N.d.A.) alla seconda volta che mi comporto male arriva l’ammonizione dello sponsor. Ed è giusto così. Tecnicamente stiamo lavorando su tanti aspetti, a partire dal servizio, col quale dovrei fare più punti diretti, a come muovere il gioco visto che riesco a spingere con entrambi i colpi da fondo. E poi la transizione sotto rete, il punto debole di tanti giocatori che pressano da fondo ma non chiudono lo scambio con una facile volée. Però, per poterlo fare, devo avere dei piedi veloci: anche qui sto progredendo anche se ammetto che preferisco stare sei ore sul campo a giocare che due in palestra, soprattutto se c’è da correre. A livello psicologico è più complicato: è vero che ho la tendenza a perdere troppo spesso la testa in campo, ma ora che sto imparando a restare più calmo, talvolta abbasso fin troppo l’intensità del mio gioco. Insomma, devo ancora trovare un buon equilibrio.»
IL FUTURO
«Si parla così tanto di questa Next Generation che quasi mi sono stancato pure io! Se qualcuno che ha 20 anni vince un match qualsiasi, ecco che subito partono i titoloni. Basti dire che si parla più del nostro Masters che di quello vero. Mi pare un tantino esagerato perché i top players sono ancora molto lontani e lo stanno dimostrando anche quest’anno. Io sto lavorando duro con Fernando Vicente e Galo Blanco: la Spagna è un’ottima scuola per diventare dei professionisti perché c’è un buon clima, ottimi coach, tanta esperienza e molti giocatori con i quali allenarsi ad alto livello. Credo che i risultati dimostrino sia stata la scelta giusta, anche se c’è ancora molto lavoro da fare. Mi piacerebbe arrivare in alto anche per poter avere più spesso la mia famiglia con me. Mio padre è impegnato nel business dei ristoranti, mia madre insegna tennis; poi ho una sorella e due sorellastre. Non sono la star di famiglia, ci mancherebbe, ognuno percorre la sua strada e una non è più importante dell’altra. Però adesso è ancora complicato farli venire ad un torneo perché ho giocato spesso dei Challenger con un’organizzazione che ovviamente non può essere quella di un Masters 1000. Sarebbe stato solo un casino perché io devo restare concentrato sul mio tennis. Quest’anno spero di giocare più tornei ATP possibili, per alzare il livello dei miei match e imparare in fretta. Poi non mi dispiacerebbe qualificarmi per le Finals della NextGen a Milano. Però di tutte quelle nuove regole non me ne piace nemmeno una, soprattutto quella che vuole accorciare troppo i match. Ma come, uno si allena come una bestia per poi giocarsi tutto in venti minuti?»
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