Nel giorno in cui Kevin Anderson, classe 1986, mostra i muscoli e certifica il suo ruolo di top-player, Andrea Arnaboldi vede una luce nuova nella sua lunga carriera. Sono passati undici anni da quando perdeva contro Flavio Cipolla nella semifinale del Challenger di Genova. Era ancora un teenager, si sperava che fosse l'inizio di un bel percorso per un ragazzo che gioca benissimo e veniva da una buona carriera junior. In effetti, “Arna” era arrivato intorno al numero 200 ATP a 22 anni, in linea con una crescita magari non impetuosa, ma costante. Ma i sentieri del circuito mondiale sono crudeli, pieni di ostacoli e disseminati di bucce di banana. Ha trascorso molto tempo in Spagna, ha cambiato diversi coach e sembrava che 'sto benedetto salto di qualità non arrivasse mai. Qualche anno fa, la scelta di affidarsi a un coach giovane, preparato e – soprattutto – motivato. Fabrizio Albani ha fatto una scelta importante, lasciando un'attività ben avviata a Bergamo per dedicarsi al talento mancino di Andrea, con il prezioso ausilio con lo psicologo dello sport Roberto Cadonati. Sono arrivate belle soddisfazioni, come il secondo turno al Roland Garros, nonché un best ranking al numero 153. Ma poi sono arrivati altri problemi, qualche risultato così così, e la classifica è rimasta sempre lì, in un limbo che non autorizza pensieri di cedimento, ma può essere frustrante perché la svolta – ovvero mettere il naso nei tornei che vedi in TV – non arriva mai, almeno con costanza. Ancora più frustrante perché Arnaboldi è persona intelligente, non riesce a farsi scivolare addosso le sconfitte. Lavori, lavori, lavori... sai cosa ti porti dietro quando scendi in campo, e poi magari perdi una brutta partita. Per questo non deve essere stato facile convivere con l'incubo delle semifinali. “Arna” ne aveva giocate 15 (!), l'ultima la settimana scorsa a Segovia. Cifra enorme, da far impallidire le finali ATP perse da Julien Benneteau.